Qualche giorno fa Ivan Carozzi in una conversazione ha detto che stiamo assistendo a una rivalutazione punk del cesso. Quello a cui si riferiva era la proliferazione di adesivi scritte battute e ritaglini nelle toilette dei locali, una mossa, diceva lui, fondamentale per aumentare l’hype del posto. Gli articoli di design invece arrivano a definire il bagno il nuovo salotto della casa e quello che intendono gli architetti di interni è che il bagno deve diventare un posto dove stare, dove star comodi, passare del tempo per prendersi cura di se stessi. Interessante contrasto tra il punkeggiare dei locali e la borghesizzazione di ogni angolo della nostra vita: sono forse due diverse forme di consumo, mi chiedo? La street cred degli adesivini e delle frasette argute (del tipo Ludovica ti amo anche se ti metti le birkenstock; liberté, mineralité, acidité; bevi peroni odia i padroni; punk e panelle) indica che il locale non è per quei signorini tutti ripuliti, anche se poi un bicchiere di vino naturale costa 7 euro. Ci sta, è una delle innumerevoli cooptazioni di modalità, estetiche e sottoculture a cui assistiamo, parte della pressione a estrarre contenuto e profitto da qualsiasi angolo dell’esistente. La rivoluzione del resto parte dalla camera dal letto, non da un bagno che qualcuno pubblica con il geotag nella mappa dei posti cool.
A ogni modo, Ivan ci ha chiesto di scrivere sul cesso, nella sua accezione punk, del bagno, nella sua accezione piastrellata, e della toilette, nella sua accezione neutrale purificata da ogni connotazione troppo ingombrante. Il bagno sembra insomma uno spazio in crisi di identità o con troppe identità – perché primariamente il bagno, come una camera a ore, è un luogo camaleontico, cioè diventa quello che ci porti, che ci vedi, è quello di Trainspotting o quello pieno di santini e prodotti femminili de Le vergini suicide. Mi è tornata in mente quella scena de La notte, in cui Jeanne Moreau si fa il bagno nella vasca ed è bellissima e irreparabilmente triste – esattamente come le stanze d’albergo, il bagno si presta alla lussuria e alla disperazione, all’indulgenza e al suicidio. È, o almeno per me è sempre stato così, il luogo delle epifanie, della vulnerabilità, del rimosso. Insomma, poco, pochissimo, salottifero.
Julia Roberts vive her best life in Pretty Woman, mentre Marie Antoinette si lascia scivolare disperata e sbronza nella vasca di Versailles. In Parasite ci si gode il bagno degli altri, in Scarface si fuma e si telefona, esattamente come ne L’ours et la poupée, in Possession si galleggia (???), in Picnic at Hanging Rock ci si lava il viso coi fiori, in Spencer la pòra Diana cerca un attimo di raccoglimento, in The shape of water è dove tutto si rivela, ecc. In ognuna di queste scene, il bagno dice qualcosa dei personaggi: come stanno, chi sono, da cosa scappano. In questo nuovo numero collettivo di Gua Sha, succede la stessa cosa: Ivan ci regala una poesia sul water di Alfonso Berardinelli, Sofia dopo aver tessuto le lodi dell’Inghilterra (ma davero?) scrive di nostalgie del bagno di casa, Veronica ci porta nel micro teatro della toilette e Ivan spiega come il linguaggio giusto possa rendere ogni esperienza poetica e ricca di corpi celesti. Questo che leggete è il cinquantaduesimo numero di Gua Sha, ed è anche il numero che celebra il primo compleanno di questa newsletter, che ha preso il via con le mie previsioni per l’anno appena finito, tanti maggioloni di Ivan e alcune questioni rimaste altrettanto complesse di Veronica. Se vuoi continuare a seguirci: non sapere dove stai andando è il modo migliore per arrivare da qualche parte mai vista prima.
– Sara Marzullo
Cinque brevi drammi da cesso
di Veronica Raimo
Piattaformizzazione
Cesso di un locale. Lui e lei stanno scopando.
Lei: (geme vigorosamente)
Lui: Oh, puoi fare più piano? Non siamo su un set porno.
Lei: No, siamo sul mio OnlyFans.
Cowboy
Cesso dell’autogrill. Lui sta pisciando, in testa un cappello a falde larghe. Lei apre la porta.
Lei: Oddio, mi scusi, non era chiusa a chiave…
Lui: (girandosi) Okay.
Lei: Ma sei De Gregori?
Lui: (continuando a pisciare) Sì. Puoi richiudere?
Luci basse
Cesso di un lounge bar. Lei è allo specchio a lavarsi le mani. Lui le poggia il pacco sul culo.
Lui: (Spingendo il pacco contro il culo) Dillo che sei solo una lurida troia.
Lei: Scusi?
Altra lei: (Dal lavandino accanto) Idiota, sono qui.
Esprit de l’escalier
Cesso di casa. Casa di lui. Mattina dopo l’avventura di una notte. Lui è uscito. Lei fa la cacca. Si accorge che lo scarico non funziona. Raccoglie lo stronzo dalla tazza e lo mette in una busta. Si beve il caffè che lui le ha lasciato sul tavolo della cucina insieme a un biglietto: “Così mi pensi”. Esce di casa e si tira la porta dietro. La busta con lo stronzo rimane sul tavolo della cucina accanto al biglietto.
Lei: Oh merda.
Festa all’ecovillaggio
Cesso ecologico con wc compostabile. Lei va a pisciare. Trova lui fuori dal bagno.
Lui: Vogliamo fecondare insieme la terra?
Lei: No, grazie, niente threesome.
L’argentea catenella
di Ivan Carozzi
Lavorando con Nicolò Porcelluzzi a Frigo!!!, il podcast sulla storia della rivista Frigidaire uscito la scorsa estate, ci eravamo posti il tema dell’uscita di scena. Ovvero: come chiudere l’arco di sei episodi lunghi e fitti, in modo brillante e all’altezza della grande avventura editoriale che avevamo appena raccontato. A un certo punto c’imbattemmo in una breve storia illustrata, dal titolo “Ambiente bagno”, scritta e disegnata per Frigidaire da un paio di autori che non avevamo mai sentito nominare, che forse su Frigidaire pubblicarono giusto quelle poche tavole. Grazie ad “Ambiente bagno” trovammo lo spunto per il finale. La storia, raccontata in prima persona, ripercorreva per inquadrature la sequenza di un tale che penetra “nell’ambiente bagno”, si slaccia i pantaloni e siede sul water, dopodiché fa quello che deve fare, solo che l’operazione era descritta in modo letterario e trasfigurato, trasformando quel bagno in un luogo simile a un tempio, dove stare in solitudine e dove capire delle cose. Di conseguenza il water era un “altare ceramicamente bianco” e la catenella per tirare lo sciacquone diventava “argentea” e il getto d’acqua diventava “il miracoloso liquido” che “lambisce e accarezza l’oggetto scuro, elementare sintesi dell’homo sapiens”, disperdendolo in “labirintiche tubature”. Ma la potenza del racconto era concentrata soprattutto nel finale, perché i due autori del fumetto avevano azzardato di fantasia, immaginando che “l’oggetto oscuro” avrebbe raggiunto “i margini della galassia”, creando “una nuova stella”, “un nuovo punto di riferimento per gli antichi marinai”. Nelle intenzioni poetiche mie e di Nicolò, “l’oggetto oscuro” diventava, un po’ immodestamente, tanto il nostro podcast, oramai masticato e digerito, quanto un simbolo della storia gloriosa di Frigidaire. Che da manufatto cartaceo e materia in fondo organica, diventato merda o polvere o cenere, si era trasformato in altro, in ammasso di gas, stella, una stella che brillava in cielo, forse senza che nessuno lo sapesse, a eccezione dei marinai, di chi viaggia e ama l’avventura, perennemente assisa, immobile, con il fascio della sua luce tenue ma costante gettato sui posteri. Poi chiedemmo a mio fratello Massimo, che aveva curato il sound design, di montare il rumore di uno sciacquone, un boato sordo, cosmico, e punto, fine, che non se ne parlasse più.
Su un guasto del water
di Alfonso Berardinelli
Tratto da un certo numero della rivista Ombre Rosse
Venuta su tranquillamente nel rigurgito
e ahimé di nuovo davanti
ai nostri occhi increduli
coi i suoi veli inviolabili, coi suoi straordinari
brandelli e filamenti e grumi.
Era con noi.
Ora è tornata indifferente e maestosa
Nella sua casuale disubbidienza
Nella pronuncia del suo involontario, inopportuno memento
Casta perché al di là
di ogni castità possibile.
Impudica e ferma nelle sue indecifrate intenzioni.
Ci ha per oggi ricordato
la precarietà dei nostri procedimenti di scarico
ma anche la precarietà
e reversibilità nostra
e di tutti i nostri procedimenti.
Flusso di coscienza partorito in bagno
di Sofia Torre
Bologna, nebbia, caldaia rotta, tapparelle cadute sul terrazzo del vicino. Quanto amo questa città nonostante la gentrificazione, la gente che si lamenta del pane e poi si fa spedire la mortadella da Caltanissetta, i ladri di biciclette e gli affitti troppo alti. Dal mio bagno vedo solo lati positivi. Quanto amo la pasta, il mio bagno, il caffè, il mio bagno, il cavolo nero, il mio bagno. Quando sono tornata dall’Inghilterra per Natale sono corsa in bagno a guardare con amore il mio bagno. Lo scarico funziona quando gli pare, devo riparare il rubinetto e senza acqua calda lavarsi la faccia è come affogare in una ciotola di vetro, però c’è quella cosa innominabile che la perfida Albione ha bandito. Una volta ho letto questa vecchia barzelletta su un inglese che va in vacanza a Roma e pensa che il bidet sia “la vasca per il mandolino”. Quando l’ho raccontata a mio nonno, ha dato il meglio di sé: Ch' a 't vègna 'n canchêr! I bolognesi danno il meglio di sé quando si tratta di essere risentiti. Lo dico dal basso delle mie radici miste: mia nonna, napoletana, non bestemmiava, non diceva parolacce (una volta le è scappata una uallera risicatissima, ma stava commentando il caffè del nord e persino io penso che il bar di Castelmaggiore abbia una miscela della uallera), i siciliani sono eleganti oppure non si degnano di risponderti, ma l’Emilia-Romagna ha chiare le sue priorità e la vasca per il mandolino è abbastanza per augurarti un canchero, pare. Terrificante. Però amo il mio bagno.
Io del canchero ho paura, una fifa blu come la fattanza di un bolognese celebre, tanto che non riesco a concepirlo nemmeno all’interno di una cornice narrativa. Guardare Breaking Bad è stata una sofferenza perché non riuscivo a pensare ad altro, ogni fotogramma era un piccolo grido: “questo personaggio sta morendo! Sta morendo! Sta morendo e tu non puoi farci niente!”. Per la stessa ragione, dieci anni fa sono uscita piangendo durante la proiezione di Alabama Monroe (spoiler: a un certo punto c’è una bambina con la leucemia). Sono passati più di dieci anni, ma ricordo perfettamente i conati nel bagno del cinema, i singhiozzi, la mia amica che mangia le patatine e non capisce perché sono così fragile davanti a questo determinato scoglio del processo vitale. Mi succede solo con le rappresentazioni del cancro, mi succede da sempre, mi succederà per sempre. Gli incidenti non sono un problema – cioè, certo, lo sono, ma non mi sconvolgono così – e con le altre malattie riesco a venire a patti, ma questa no, questa mai. Ho paura e l’avrò sempre. Febbraio, fra l’altro, è il mese della prevenzione gratuita. Persino quel cazzo di fiocchetto rosa mi fa venire l’ansia, ma l’oncologo calabrese che mi palpeggia una volta all’anno mi dice sempre che ho delle bellissime lentiggini. Ci sarebbe forse da chiedersi perché in un momento così solenne e serio l’apprezzamento di un uomo che vede settecento donne nude al giorno mi salvi dall’angoscia e dalla paura di morire. Per fortuna, narcisismo > paura.
Comunque, il bagno. Amo il mio bagno.