La mitologia del precariato ha le sue regole. Per esempio, è noto che a un certo punto si debba necessariamente finire in Inghilterra. A studiare, a lavare i piatti, a fare lo squatter e fregare la previdenza sociale per l'assegno di disoccupazione. L’importante è andare via, mettere una distanza tra questo paese e se stessi, trovare un punto dopo il quale ci si riferirà a quello che è successo prima come «la mia vita precedente». Ha senso, è bello, non fa niente se lo sguardo modifica l’oggetto osservato e se di conseguenza ci si sente un po’ disonesti quando si cerca di osservare se stessi.
Certo, questo discorso presuppone la certezza che la paura abbia una dimora stabile e che non sia capace di inseguirci. O forse conviene fidarsi del fatto che l'Inghilterra è un'isola, che se c'è maltempo sulla Manica il continente resta isolato e che, dunque, forse è davvero possibile far perdere le proprie tracce. Ma qualcuno è mai tornato dall'Inghilterra? E, biglietto a parte, quanto costa farlo? Sofia dice che è come mettere la testa fuori dall'acqua: e se poi te la tagliano?
È un rischio, ma è sempre meglio della sua unica vera alternativa: «Getting by, looking ahead, the day you die».
– Mario Di Vito
Cartoline dall’Inghilterra
di Sofia Torre
(a Lucia, per cui partire è sempre una buona idea)
Tre settimane fa sono partita per l’Inghilterra e da quando sono qui mi sento leggera come non capitava da anni. Sono lontana dall’Italia per lavoro e dovrei accusare tutti i classici sintomi del viaggio di lavoro – la stanchezza, lo stress, l’ansia da prestazione, la solitudine – ma la verità è che continuo a chiedermi come ho potuto posticipare questo senso di sollievo fino ad ora. Mi domando perché avessi tutta questa paura di andarmene e a pensare che non staccare da casa – intesa come routine, treni da prendere, persone da incontrare, emozioni da fingere e rospi da ingoiare – potesse essere una buona idea.
Essere da un’altra parte significa soprattutto un cuscinetto di centinaia di chilometri fra te e la tua ansia del futuro. Se sei altrove non sei mai nel posto sbagliato. Se rimani fuori dal tempo non sei mai in ritardo. Osservo Sofia Torre da lontano e sono felice per lei. Le voglio bene, mi scopro a pensare. Da qui, sono anche orgogliosa di lei. Da qui, non ho bisogno di giustificare niente: questo non è un saggio ombelicale che non parla di niente, ma una cartolina di incoraggiamento che mando a tutti perché mi va. Forse questa volta non ci sarà niente di brillante da leggere fra le righe, ma che senso ha vantarsi di combattere la performatività se nemmeno in una newsletter come questa usciamo dal personaggio?
Ho ripreso a indossare maglioni colorati, a mettere orecchini enormi, a portare il rossetto rosso che mi piace da morire ma che non uso a casa, perché mi sento sempre troppo vistosa. L’ossessione per il mio peso è svanita e io sono dimagrita (tanto) di nuovo, e ora osservo la giovane donna che mi sorride allo specchio pensando che ha un bellissimo aspetto e che ha sprecato una grossa quantità del suo preziosissimo tempo a preoccuparsi di dettagli irrilevanti (ipotetici chili di troppo, le occhiaie, la forma delle sue cosce) che comunque non hanno mai compromesso l’insieme, ma che gli regalavano una sua unicità. Ho trentun’anni e mi sento passata al microscopio da quando ne ho dodici, tanto dai rilassanti rappresentanti del patriarcato mainstream (io li chiamo i Signori Cinepanettoni) che dalle Femministe Tutte D’Un Pezzo, per cui se il catcalling non ti dà fastidio sei un’ancella del demonio e stai incitando allo stupro. Catcalling o catechismo, in ogni caso “mi ha cotto il razzo”.
Sono uscita con un uomo convenzionalmente attraente, bello in quella maniera impalpabile e perfetta che non ho mai reputato il mio target. Gli occhi celesti, la mascella squadrata, le labbra ben disegnate. Mi sono trovata a guardarlo come suppongo che gli uomini guardino quotidianamente le donne, senza cercare significati metafisici nell’attrazione sessuale, ma godendomela come un profumo o un sapore nuovo. Notando con un sottile senso di trionfo che esistono anche quelli così (non è sposato o impegnato con una compagna ignara della sua apparente poliamorosità; è interessato a me e mi ascolta mentre parlo; non ha votato per la Brexit; non vuole spiegarmi perché non ho capito Deleuze e non colleziona resti di cadavere in putrefazione), ho pensato che la prossima volta che andrò a letto con qualcuno lo farò senza sentirmi in ansia. Nella mia testa ho elencato tutte le volte che mi sono ritrovata a dare credito a uomini disgustosi (“hai due chili di troppo”, detto da un uomo di circa 100 chili con un dente d’oro; “sei fortunata a essere bella perché non hai nessun talento”, detto da un ex compagno incapace di fare una battuta senza scimmiottare Boris; “so che sei innamorata di me”, frase post-coito di un individuo di cui non ricordo nemmeno il cognome), a sentirmi grassa, sgraziata, inadatta, brutta. Ho pensato a quando ho smesso di mangiare a quattordici anni perché avevo trovato in un cassetto una foto di mia madre. Mi era sembrata così tanto più sottile di me e volevo così disperatamente assomigliarle che ho semplicemente smesso di pranzare quando tornavo a casa da scuola e iniziato a pasticciare con la forchetta nel piatto della cena. Non ho retto tantissimo, dopo qualche giorno sono svenuta in classe e il mio professore di greco e latino dell’epoca mi ha preso da parte e fatto promettere che non avrei più fatto una cosa del genere. Mi ha assicurato che non l’avrebbe mai raccontato a nessuno e poi mi ha regalato un cartoncino verde con il titolo di un libro, purtroppo andato perduto in un trasloco. La parentesi anoressia si è chiusa, l’ansia di piacere no. Ho pensato a tutta la tristezza che ho accumulato in questi anni di ansia, a tutto il rancore, alla noia. Ho baciato sulle labbra l’uomo bellissimo e sono andata a passeggiare da sola.
Ho imparato ad amare le prime ore del mattino. Da quando sono qui mi sveglio con la luce del sole – le tapparelle inglesi, the blinds, non oscurano un bel niente. Ma svegliarsi con il sole che spunta, persino i timidi raggi britannici, non è come essere interrotti nella fase REM da quel trillo odioso che ti ricorda che sei di nuovo in ritardo per qualcosa. Mi alzo, riempio una tazza di caffè annacquato e bollente e guardo dalla finestra i tetti rossi tutti uguali mentre il mio coinquilino si meraviglia che non voglio assaggiare i suoi fagioli in umido con la pancetta. Italians, dice, ma lo fa con allegria.
Fuori casa il mio telefono funziona poco e male. Il sollievo del diritto all’oblio riconquistato, un’ottima scusa per disconnettersi e tenersi accuratamente lontani da quello che probabilmente mi ha fatto stringere lo stomaco fino a fine ottobre: l’eterno confronto con gli altri. Tengo il telefono impostato sulla modalità “aereo” e non ho quasi più gli attacchi di panico. Se non scrollo nevroticamente i social media, non mi sto perdendo neanche un convegno, nessuno ha scritto un pezzo migliore del mio su un argomento che pensavo di padroneggiare splendidamente, non ci sono frecciatine su mie eventuali mancanze e poi basta con questa storia di Amélie. Soprattutto, ho una scusa funzionale per evitare tutte quelle situazioni sgradevoli a cui non ho mai davvero imparato a sottrarmi: i messaggi con richieste sessuali che non ho voglia di soddisfare (“vengo a trovarti, mi apri nuda, me lo prendi in bocca e mi fai un caffè”); i complimenti passivo-aggressivi di uomini che non mi hanno mai vista di persona (“sei quasi sexy”); le lievi accuse (“sei una bella ragazza, ma non ho capito che lavoro fai”). Se non perdo tempo a innervosirmi per l’ultima polemica della mia bolla social (è stato un errore uccidere Aldo Moro? Bisogna usare la schwa? Prendersela con la laureata in Medicina che non conosce la canzone dei CCCP è antifemminista? Gli onnivori “mangiano a caso e male?”), il lavoro è notevolmente meno stressante, scrivere è un piacere e leggere, invece che servire caffè, un autentico privilegio.
Devo tornare a casa per i convegni e poi per Natale. Vorrei non farlo. Ho paura che questo avere messo la testa fuori dall’acqua sia qualcosa che pagherò, come quando torni dalle ferie (se ci vai), o quando ti pesi dopo il pranzo di Natale (no, i disturbi alimentari non sono davvero finiti).
È possibile restare aggrappati agli inizi, a quelle bollicine di quando non hai rimpianti? Forse no, ma vorrei chiudere con il verso di un pezzo che amo molto, che stavo ascoltando quando sono arrivata qui:
Voices whine
Skyscrapers are scraping together
Your voice is smoking
Last cigarettes are all you can get
Turning your orbit around
grazie, ti ho letta al momento giusto, sono giorni che ripenso a quando vivevo in un altro continente ed ero felice. quella sensazione lì, che provavo quando ero lontana, proprio perchè ero lontana.. dove posso ritrovarla? dove la cerco? non è che è andata perduta per sempre?
due giorni fa ascoltavo un podcast e la speaker parlava di homesickness, nostalgia di casa, e suggeriva che la casa non è necessariamente un luogo, è anche il verso di una canzone, un cazzo, un drink. e allora ho capito che in questi giorni i'm just feeling homesick. casa mia non è roma, la città dove sono nata e dove sto vivendo. casa mia è non sentirmi a casa.
niente, è stato bello leggerti, grazie ancora.