Sara, scrivo solo a te questa cosa poi magari mi aiuterai tu a risolvere la questione con le altre di Gua Sha. È arrivato questo pezzo di Sofia su Works di Vitaliano Trevisan. Questo sfogo, diciamo.
Works è il diario riluttante di qualcuno che vorrebbe vivere di scrittura ma lavora perché deve sostenersi, che non crede ciecamente alla performatività ossessiva della società neo-liberista ma che non è immune alle contraddizioni.
Sofia scrive dal punto di vista di una povera ex gelataia che ora campa malamente con il dottorato. Sappiamo la storia. Il risultato è che non ha tempo per imparare a usare i trattini negli incisi: “Il libro più bello che ho letto quest’anno-anzi, forse il libro migliore che abbia letto in almeno cinque anni-è Works, di Vitaliano Trevisan”. I pezzi ci arrivano così. Crede che noi invece abbiamo tempo di correggere i suoi trattini. Ma se glielo dico mi rinfaccerà che io ho avuto tempo per imparare a usare i trattini perché non ho dovuto lavorare in una gelateria. Prende sempre questa posizione di comodo che la porta a mandarci i pezzi sempre così fieramente da correggere. Nessuno ha più tempo per correggere i pezzi. Sinceramente vorrei che fossi tu a farti carico di questo problema. Quando abbiamo costruito la redazione io avevo proposto Big Luca, lo youtuber da Dubai, per dare un po’ di ottimismo ai lettori. Tu hai insistito per questa comunista. Hai idea di come risolvere il problema?
– Francesco Pacifico
“Poi guarda che da gelataia guadagnavo di più”
(La riunione di redazione)
Francesco Pacifico (11:57): Comunque se pensare che così sembri una critica alla povertà (lol) faccio qualcosa di meno ambiguo
Sofia Torre (12:10): Ma no ma no, si vede che è un private joke, secondo me. Poi guarda che da gelataia guadagnavo di più.
Veronica Raimo (12:20): Ho sempre sognato di fare la gelataia. Invece il massimo della mia carriera è stata cameriera in pizzeria dove sono stata licenziata perché mi facevo troppe birrette gratis quando riportavo i piatti in cucina.
Sofia Torre (12:38): Possiamo mettere la risposta di Veronica? Me la sto immaginando sbronza che ride fortissimo sulle pizze degli altri
“Il mango sapeva di pistacchio”
di Sofia Torre
Il libro più bello che ho letto quest’anno-anzi, forse il libro migliore che abbia letto in almeno cinque anni-è Works, di Vitaliano Trevisan.
Non si tratta esattamente della scoperta di un giovane autore sconosciuto o di un ignoto capolavoro per il pubblico di nicchia da Pigneto serale, ma è stata una specie di rivelazione per me, un campanello d’allarme che significa che forse sto diventando piccolo-borghese e noiosa. Ho sempre snobbato i libri celebrati su La Stampa, sul supplemento del Sole24ore. La gente che legge il Sole24ore, pensavo, è un po’ come quella che tenta di mettere su delle start-up o riesce ad abbinare ogni mattina i capi d’abbigliamento designati seguendo un complesso schema tono-su-tono. Sono quelli che non mi inviterebbero mai al loro matrimonio e si accorgono se ho la maglietta macchiata o se ho messo su mezzo chilo – faccenda che avviene regolarmente, quando lavoro troppo, sono stressata o sono triste perché non vengo mai invitata ai matrimoni. Ho sempre avuto la stessa opinione anche dei libri pubblicizzati su questo genere di riviste, almeno fino a un anno e mezzo fa, quando sono entrata in dottorato e ho iniziato a indossare qualcosa di diverso da una divisa per andare al lavoro (addio magliette macchiate!). A cambiare non è stato solo il mio guardaroba, ma soprattutto il mio rapporto con la scrittura. Quando passi circa undici ore al giorno in piedi lavando pavimenti, preparando cappuccini e servendo gelati a uomini di sessant’anni con la camicia lucida e le scarpe a fiori che ti guardano come se in vetrina ci fossi tu, hai poco tempo per scrivere e i ritagli di tempo che riesci a ricavarti devono, almeno in minima parte, lenire la tua alienazione e la tua stanchezza. Hai bisogno di emozioni, melodrammi, opinionismo spiccio e umorismo da bar. Quel periodo per me è durato anche troppo, riversandosi nei miei gusti in fatto di recensioni come le vecchie signore che guardano Beautiful solo perché vedono bene i colori di rossetti e tinte bionde. Se da un lato invidiavo il tono delle recensioni, così freddo, ponderato, accademico – roba alla Claudio Giunta o comunque farina del sacco di qualche ex-normalista con la camicia stirata e la dizione perfetta – dall’altro finivo sempre per provare un certo senso di estraneità. Non sentivano niente, queste persone? Non era un discorso d’impegno nella letteratura – faccio parte di quel ristretto e sgradevole milieu di sinistra che apprezza la forma quasi più del contenuto e che non crede che l’arte debba rassicurare ma solo funzionare – ma, stremata dal lavoro fisico e dalle continue interazioni con bambini urlanti e Loris Batacchi di periferia, ritenevo che un pezzo qualsiasi per essere efficace dovesse lasciar trapelare qualcosa di più di un gelido esercizio di stile. Forse è per questo che ho fatto la gelataia così a lungo e forse è per questo che tutti i miei tentativi di esercizi di stile sono macchiati di lacrimoni – la distanza fra me e la scrittura si misurava in tentativi di circumnavigare il dolore, la stanchezza e quello che penso davvero. Forse è che scrivevo di libri solo quando in preda alla sindrome premestruale.
Qualcosa di simile si può dire di Trevisan. Veneto – un dettaglio che sembra una nota a margine ma è una questione cruciale nel definire il suo rapporto quasi religioso con il lavoro – morto suicida da pochi mesi, cresciuto in bilico fra il mito della produttività così diffuso nel diligente NordEst e il desiderio di “lasciarsi andare alla deriva in pace diventando un barbone”, l’autore di Works è un working class hero che cerca di fare parte di quell’universo culturale dove la frase più ripetuta è “non ci sono soldi”. Che significa soprattutto che non ci sono soldi per te che stai alla base della piramide, per te che sei uno stronzo sconosciuto e che perderai la guerra della notorietà letteraria per logoramento, visto che ti tocca lavorare per campare, essendo, per chi non è ricco, quel volgare problema della sussistenza. Works è il diario riluttante di qualcuno che vorrebbe vivere di scrittura ma lavora perché deve sostenersi, che non crede ciecamente alla performatività ossessiva della società neo-liberista ma che non è immune alle contraddizioni. Un operaio è libero di compiacersi di un lavoro ben fatto, nonostante lo abbia dovuto portare a termine fra straordinari non pagati e rischi di impalcature cedevoli. Se non lo capite e pretendete un rigore religioso anche nell’antilavorismo, il problema è sistemico e non ne siete immuni.
Scrivere quindi è un sogno troppo bello per avverarsi, qualcosa che tieni da parte per non sciuparlo, perché sai che non te lo meriti fino in fondo e che sei destinato a trovarti sempre lavori che ti distruggono la schiena e ti fanno sentire un impostore. Trevisan, troppo intellettuale per essere un manovale risolto e troppo attaccato alla sua contingenza di nascita (leggi: la provincia veneta in cui la prima cosa che l’autore, adolescente che desidera una bicicletta da uomo, impara è “capire da dove viene”) per entrare nel mondo del lavoro culturale senza pensarsi fuori posto è spaccato a metà. Una scissione che ti salva: non prendersi troppo sul serio, mettere in relazione la difficoltà percepita col mondo reale, ridere di sé e degli altri sono skills che purtroppo non si acquisiscono se non si esce dalla propria comfort-zone, intesa anche come lavoro ideale. Se non avessi passato così tante ore a sentirmi dire che il mango sapeva di pistacchio (infatti era pistacchio), a sentirmi urlare addosso insulti irripetibili per un cucchiaino nel verso sbagliato, un grembiule macchiato o un’etichetta incollata storta, ora potrei persino pensare che quelli che si indignano perché una nota è spaginata hanno ragione e io sono una fallita.