L’artista come capitale umano. Gua Sha come capitale umidiccio, o come corpo umanissimo. Come “nucleo molle del mio essere” (Geoff Dyer, Per pura rabbia, un libro sulla procrastinazione e il cazzeggio, senza senso di colpa, ma col senso estetico).
Questo numero di Gua Sha, il n.6, è stato evocato da Elisa Cuter, che continua con i suoi appunti su Grub Street (la prima parte qui), ci sono l’operaio forte, l’operaio debole e fondare un'ipotesi rivoluzionaria su un soggetto in via di estinzione. “Nadia Mantovani è bella e comunista”. E Susanna Agnelli è miope, colpita da “una specie di emarginazione per eccesso di privilegi”. Ivan Carozzi si chiede se siamo persone o classi sociali? Individui irripetibili o insiemi di strutture? Sfruttatori integrali e cinici o pezzi di una storia che ci contiene e ci precede? Angela McRobbie risponde che “il capitale umano come potenziale personale diventa uno strumento pedagogico”, in cui allora si parla di creatività come un insieme di flessibilità e di competenze trasferibili, ma noi siamo i bambini scalmanati, noi ci copriamo le braccia di trasferelli. Tieni gli appunti sparsi, i quindici minuti di cazzeggio, di spreco di tempo, di contemplazione. “Lavorare lavorare lavorare / preferisco il rumore del mare”.
Appunti su Grub Street. FLASH FORWARD
di Elisa Cuter
Cosa vuol dire lavoro cognitivo, cosa vuol dire intellettuale, in che relazione sta con la classe operaia?
Nella nostra area si definiva operaio sociale quella figura operaia che usciva sul territorio, cioè che non faceva più solo lotta di fabbrica ma si poneva come avanguardia sul territorio, quindi sulle lotte sulla casa, sulle lotte più politiche, su tutta un’altra serie di obiettivi… Noi abbiamo letto questa figura come una figura forte, talmente forte che poteva uscire dalla fabbrica per fare un discorso politico complessivo. Invece quello era un operaio diventato debole nella fabbrica, che quindi usciva dalla fabbrica per debolezza, non per forza. E quindi dovendo dare un giudizio sintetico io direi questo: che noi abbiamo fondato una ipotesi rivoluzionaria (tale era la lotta armata in Italia in quegli anni) su un soggetto in via di estinzione. E questo ce l’ha detto poi la Storia per come è andata, ma la Storia già vicina a quegli anni. Perché all’inizio dicevo i due anni ‘73 e ’80… beh l’’80 è stato secondo me l’anno cruciale, a Torino rappresentato dai licenziamenti di massa, dalla cassa integrazione di massa alla FIAT e dalla prima manifestazione nazionale dei quadri della FIAT, cioè di quei quadri che quando gli operai manifestavano si nascondevano, no? E che invece dopo la grande sconfitta operaia scendevano in piazza e dimostravano di essere loro i nuovi soggetti di una fabbrica che diventava pura tecnologia e che progressivamente non aveva più bisogno del lavoro operaio.
Susanna Ronconi nel documentario “Do you remember revolution. Donne nella lotta armata” di Loredana Bianconi
Consiglio comunque tutto il documentario, in cui la figura che ne esce in modo più affascinante e umano penso sia Nadia Mantovani, colei che su sul n. 6 di Rosso giornale dentro il movimento del 14 febbraio 1976 a pagina 8 veniva definita in questo piccolo capolavoro “bella e comunista”.
Ravera VS Agnelli
di Ivan Carozzi
Fra il 1977 e il 1978, Rai 2 manda in onda una trasmissione in dieci puntate. Si chiama Match. In ogni puntata va in scena un duello tra intellettuali. Conduce lo scrittore Alberto Arbasino. In occasione di una puntata gli ospiti sono Lidia Ravera e Susanna Agnelli. La prima ha scritto un romanzo di grande successo, Porci con le ali, mentre Susanna Agnelli ha da poco pubblicato Vestivamo alla marinara, libro di altrettanto successo, dedicato alla storia della propria famiglia. Lidia Ravera è considerata vicina alla sinistra extraparlamentare, mentre Susanna Agnelli è sorella dell’Avvocato ed erede della famiglia che in Italia è stata il simbolo più noto della fabbrica, del conflitto tra Capitale e Lavoro, tra padronato e classe operaia. La prima a prendere la parola è Lidia Ravera. Rivolgendosi a Susanna Agnelli, Ravera si rifiuta di dire e di essere ciò che tutti si aspettano da lei. Non intende assumere una postura predeterminata e attaccare la Agnelli in quanto Agnelli, vuole confrontarsi con lei da scrittrice a scrittrice. Tuttavia, al momento di fare la domanda, in Ravera torna il sospetto di trovarsi di fronte a una Agnelli e quindi a un’espressione del padronato. Questa lunga ouverture, disseminata di dubbi, che apre il duello tra Camilla Ravera e Susanna Agnelli, testimonia il dilemma, veramente irrisolvibile, sulla natura di chi siamo: persone o classi sociali? Individui irripetibili o insiemi di strutture? Sfruttatori integrali e cinici o pezzi di una storia che ci contiene e ci precede? Buoni o cattivi? ecc. ecc. Il che negli anni Settanta significò anche chiedersi se tizio o caio meritassero di vivere o di morire.
Camilla Ravera:
Io so che lei, come molte persone afflitte da un cognome invadente, preferisce in genere non essere, non dico attaccata, ma neanche interrogata su questioni di famiglia, diciamo, ché le colpe dei fratelli non ricadono sulle sorelle, io quindi, anche se avevo subodorato, magari un po’ malignamente, di essere stata invitata a questo incontro anche un po’ contando sul mio ruolo sociale di Gian Burrasca extraparlamentare, per garantire facili polemiche, diciamo così, anti-padronali, volevo francamente evitarle, volevo proprio saltare a piè pari tutte le polemiche anti-Agnelli, anti-ricchi, anti-potenti d'Italia, e mettere quindi il confronto sull'unico piano in fondo che ci unisce, e nella misura in cui ci unisce, cioè quello di avere scritto due libri di grande successo di pubblico e invece tiepidi di critica. Credo che questo sia vero anche per lei. Allora mi sono andata a leggere il suo libro, ma devo dire che l'ho letto con divertimento, dall'inizio alla fine. Purtroppo leggendo il suo libro tutte le mie buone intenzioni sono crollate miseramente, nel senso che questo libro mi è sembrato francamente una specie di album di famiglia, un po’ patinato, un pò lussuoso, in cui tra una sfilata di camerieri e governanti e l'altra, non c'era più spazio per molto altro, cioè mi è sembrata una visione profondamente Agnelli, cioè profondamente segnata da quella che è la sua condizione molto particolare, mi è venuta in mente una specie di emarginazione per eccesso di privilegi, che induce a forme di miopia per quello che riguarda la visione del mondo, la comprensione della storia. Nel libro tra l'altro parla di uno spaccato storico, e non indifferente, del ventennio fascista: la guerra, l'esperienza della resistenza. Ecco, io ho sentito molto e molto profondamente questa visione, un po’ da signorina bene, un po’ da chiusa nella fuga dei saloni. E allora la prima domanda che vorrei farle con una mia curiosità reale è questa: lei era cosciente di quanto questo suo essere così profondamente signorina Agnelli o Signorina Fiat rendesse da certi punti di vista angusta la sua visione del mondo, un po’ limitata, e pur soffrendo ha deciso di scrivere lo stesso questo libro, sopportando questo essere così profondamente Agnelli come un limite? Io ho un profondo rispetto per quanto di doverosamente soggettivo c'è nell'esperienza letteraria, in fondo è questo che la differenzia dalla saggistica, e quindi capisco perfettamente che la signorina Agnelli non può prendere a prestito lo sguardo di una pescivendola per guardare il mondo quando parla di sé stessa, quindi capisco profondamente questa cosa. Oppure, e questo è un sospetto che mi è venuto soprattutto in certi tratti, lei ha scritto questo libro proprio in quanto signorina Agnelli, cioè puntando su un suo ruolo mondano e sociale, sapendo che questo ruolo le avrebbe garantito il successo che il libro ha poi avuto.
Dog proposal
di Sara Marzullo
Do you believe that hard work is what it takes to be successful?
I know it sounds bad but I think it's one of the most misleading ideas emerging in the culturescape today.
Dry Cleaning sono il gruppo che ho ascoltato di più lo scorso anno. Mi piace come la cantante sembra leggere, più che cantare, i testi e sempre quasi suo malgrado. C’è una specie di dissonanza, di straniamento nel modo piatto in cui li ripete, che rende i testi, di per loro già particolarmente verbosi, ancora più strani, enigmatici e cerebrali.
Dire “che ho ascoltato di più” è un eufemismo, dal momento che per tutta la primavera non sono riuscita ad ascoltare quasi nient’altro, e poi ancora e ancora. “I've come to smash what you made / I've come to learn how to mingle / I've come to learn how to dance” sembrava riuscire a dire quasi tutto quello sentivo, con lo stesso grado di leggera dissociazione.
Hard work has very little to do with success. Open your phone and check your entrepreneurial channels. You'll see motivational pictures about working hundred hour weeks. Well it only applies to those who are operating at a really basic level, it's not your problem.
(“Dog Proposal”, da Boundary Road Snacks and Drinks EP)
Sing me to sleep, Florence Shaw! Sing me to sleep! Sii la mia babysitter stralunata, sii l’adolescente che arrotonda durante il weekend tenendo i bambini e insegnandogli cose che non dovrebbero imparare! Sing me to sleep!
Per il numero Grub Street evocato dal pezzo di Elisa, ho pensato di contribuire con un estratto da Be Creative! di Angela McRobbie, di cui l’assenza di un’edizione italiana mi costringe a sottoporvi a una brutta traduzione.
In lista? La socialità della club culture a lavoro.
(Be Creative! Making a living in the new culture industries, polity press, 2016)
Primo: che nel settore creativo sono stati importati elementi della cultura giovanile, in particolare dal mondo dinamico e imprenditoriale della dance and rave culture; secondo, che il regime di lavoro “accelerato” in ambito culturale richiede adesso di mantenere più lavori alla volta; terzo che tali condizioni di lavoro dipendono inoltre da strategie di autopromozione pervasive, e, come in ogni altra impresa, da ‘relazioni pubbliche’ efficaci; e quarto che dove si presenta un nuovo rapporto di tempo e spazio c'è scarsa possibilità di creare politiche di lavoro e poco tempo, pochi meccanismi esistenti per organizzarne, e nessuno spazio di lavoro prefissato in cui sviluppare politiche relative a quello spazio di lavoro. Questo mette in discussione il ruolo e la funzione della “rete sociale di rapporti” (network sociality, ndt), così quinto e ultimo possiamo vedere la tensione che si crea per il nuovo tipo di lavoratore creativo, profondamente dipendente dall’attività informale di networking, ma senza che questa trovi il supporto di ‘associazione di categoria’ istituzionale.
(A novembre sono andata alla prima riunione di Redacta a Torino ed è stato interessante, fuori da dinamiche di self-help che temevo, di sentimentalizzazione del precariato. È una via di uscita? Forse, o lo spero. Fatto sta che non sono andata alla seconda, avevo altro da fare / non riuscivo ad andare / combaciava con un altro impegno. Devo riflettere sul perché?)