Cosa succede quando parliamo di noi agli altri? Come cambia il rapporto fra identità personale e comunicazione del sé in relazione al genere di appartenenza? Dove andiamo a parare quando cerchiamo di schivare i compiti di cura tradizionalmente assegnati alle donne? Siamo veramente liberi quando scegliamo i nostri contenuti, online e offline? Ma insomma, sembra dire Sara Marzullo in questo pezzo, sottendendo a una sottile provocazione: “la ragazza infatti è una specie di Polly Pocket da vestire dell’identità adeguata alla circostanza”. Siamo stufe di prenderci per mano e fare il girotondo per la pace. Siamo stufe di essere buone, ma soprattutto di doverlo apparire. Siamo stufe di aver appiccicata addosso questa etichetta nevrastenica dell’empatia a tutti i costi. Non vogliamo essere femminili per femminilizzare, non dobbiamo, non possiamo assumerci sempre il peso dell’altro, la responsabilità del collettivo, il dolore del mondo.
Partendo dagli insegnamenti alla base – “alle ragazze viene insegnato a identificarsi l’una con l’altra, a pensare che abbiamo qualcosa in comune, in virtù del nostro essere ragazze, a confessarci e confidarci con chiunque condivida il nostro genere” –, zigzagando fra soffocanti forme di resistenza/sussistenza – “puoi trasformare la tua vita in una fonte di reddito” – per arrivare, sfiniti, a capire che la nostra vita privata serve agli altri, ci troviamo di fronte all’ennesimo paradosso della vita dell’individuo mediamente colto, mediamente egocentrico e mediamente solo: forse siamo sempre online.
Del resto, come cantava David Bowie
I can't give everything
Away
Seeing more and feeling less
Saying no but meaning yes
This is all I ever meant
That's the message that I sent
Per curare il mondo serve un pizzico d’amore? Forse, ma solo se è quello che davvero vogliamo.
– Sofia Torre
Ragazze online
di Sara Marzullo
Cosa accade quando una donna va online? Diventa una ragazza.
— Joanna Walsh
L’altro giorno su YouTube mi è apparso un reel dall’incredibile titolo Spaghetti & Why I Don’t Have Kids: in trenta secondi la protagonista cucina una ciotola di spaghetti al pomodoro e racconta come, dopo una lunga relazione finita alla vigilia dei suoi 37 anni e l’inizio di una nuova, più promettente, storia, abbia deciso di tentare la fecondazione assistita. Spiega come quel percorso sia stato pieno di speranze e delusioni – prima un medico che le assicura che è ancora possibile per lei concepire, poi la scoperta che invece le possibilità si contano sulle dita di una mano – e come abbia spiegato questo desiderio al nuovo compagno. La storia è raccontata in voice over, mentre nel video vengono illustrati i passaggi della ricetta; si conclude con una quieta accettazione della sua mancata maternità, giusto in tempo per sedersi a tavola a mangiare gli spaghetti. Che capacità di sintesi, mi viene da dire, dato che c’ho messo più tempo a descrivere il video che lei a raccontare un argomento così delicato. Il video, nel momento in cui l’ho visto, aveva raccolto 2 milioni di visualizzazioni. Oggi ne ha oltre 4 milioni.
Il mio feed è pieno di video simili: ragazza che cucina il ramen e spiega il rapporto conflittuale coi genitori, giovane donna che affronta le pressioni sociali e cucina la colazione, la stessa donna di prima che spiega How my mother reacted to my depression + French Toast Bites. Questo nuovo genere di ricette mescolate a confessioni personali non è che una parte della monetizzazione dell’io, l’economia dell’intimità che promette di far guadagnare (visibilità/attenzione/credito/fama/denaro) in cambio di qualcosa di autentico o di qualcosa che sembri autentico. Niente di inedito, comunque, dopo anni di tutorial di trucco che promettevano di rivelare segreti su relazioni e self-care; ma stavolta ho percepito un che di perturbante e alieno nella costruzione del video, che lo rendeva simile alle ottimizzazione dei risultati di Google o ai programmi di AI che creano immagini artificiali a partire da un testo, come DALL-E. Il video mette in relazione alcune cose che l’algoritmo conosce di me: cucino, ho un’età biologica in cui tocca affrontare la questione maternità, sono sensibile al tono confessionale (l’algoritmo sa che sono una ragazza, insomma). Tuttavia, per qualche motivo, questo video sembra caratterizzato da una specie di saturazione algoritmica: era troppo carico (o ricco) di roba, come una pizza con sopra le ostriche e la crema di nocciole o un vestito di seta con inserti in pelle e bordi di piume – tutte cose che separatamente hanno senso, ma che combinate creano qualcosa di nauseante.
A differenza di DALL-E, però, il video è girato da una persona. La domanda non è tanto perché The Korean Vegan abbia pensato di mescolare fertilità e pomodorini, la risposta è che il suo obiettivo è convertire le visualizzazioni dei reel in iscritti per il suo canale di ricette e il mezzo per farlo è la confessione personale (in realtà il voice over è un estratto dal suo podcast, ma non cambia molto). La domanda è piuttosto perché funziona, nonostante suoni ridicolo, nonostante sia nauseante. In altre parole, fino a che punto alcuni dolori collettivi – la cui esperienza è però sempre individuale – possono diventare forme di intrattenimento, e perché questo è specificamente legato al femminile? Mi sembra di tornare sugli stessi argomenti di cui ha scritto Elisa nel numero 36 di Gua Sha, Candy crush ed empatia, a proposito delle “povere donne puzzolenti all’addiaccio” che i giochini per il telefono chiedevano di salvare. L’empatia non ci salverà, scriveva Elisa, anche perché empatia verso chi?
Non so niente di queste ragazze online con i problemi familiari, né di tutti gli adolescenti che parlano di malattie mentali su TikTok; non ne so niente, non li conosco, non li frequento, so solo che soffrono e che, dato che sono una ragazza, mi dovrebbe importare moltissimo di loro e dei loro contenuti – e infatti mi becco Spaghetti & Why I Don’t Have Kids (che tra l’altro mi sembrava un buon compromesso). Come scrive Chris Kraus in Alien & Anorexia “perché entrambe siamo ragazze, Gudrun Scheidecker mi ha raccontato tutto della sua vita”, alle ragazze viene insegnato a identificarsi l’una con l’altra, a pensare che abbiamo qualcosa in comune, in virtù del nostro essere ragazze, a confessarci e confidarci con chiunque condivida il nostro genere. Ci viene insegnato che conosciamo i dolori delle altre, esattamente come i nostri, anzi come fossero nostri, e che è importante esserci a dispetto di qualsiasi altro fattore o variabile, mostrando empatia. Insomma, qualsiasi cosa stai facendo, hai sempre 30 secondi per connetterti con una tizia sconosciuta e i suoi problemi sulla maternità. Che poi non è altro che la traduzione TikTok di quello che storicamente è un compito femminile: imparare a gestire le proprie emozioni e quelle degli altri – l’unica novità è che magari questo insegnamento si è esteso, sempre per dirla con Cuter, al mondo femminilizzato. Il tentativo di istruire sulla salute mentale in 30 secondi, la cronaca della scoperta di una malattia con una colonna sonora ispirata o la youtuber che cucina le melanzane fritte dicendoci che è rimasta incinta a 15 anni sono versioni aggiornate e identiche dello stesso insegnamento: che per curare il mondo serve un pizzico d’amore.
In The Female Complain, Lauren Berlant scrive: “il concetto di cultura femminile nasce da questo senso di identificazione laterale: vede la socialità radicarsi a livello collettivo attraverso rivelazioni di ciò che è personale, a dispetto di come queste siano veicolate, attraverso quali spazi e quale gerarchia sociale”. Che è un altro modo di dire che nel sentimento siamo tutti uguali e che è proprio tramite il sentimento che possiamo capire e, dunque, cambiare le cose. Berlant dice anche che le modalità di azione della cultura femminile (e in generale dei soggetti politicamente meno influenti) è di tipo non-politico e percepisce la politica come violenta e volgare, ma promette di condurre a un mondo migliore senza il bisogno della politica, solo grazie all’ammmore e alla connessione.
Detta in altri termini:
Il liberalismo compassionevole, nel migliore dei casi, non è che carta vetrata sulla superficie del monumento del razzismo, la cui solidità strutturale ed economica continua a esistere: la femminilità, una sorta di supremazia soft radicata nella compassione e per cui è obbligatorio identificarsi, vuole dissolvere quella struttura nella sfera intima attraverso le buone intenzioni, mentre allo stesso tempo si occupa di esotizzare e sminuire chiunque gli sia scomodo e non-conforme.
Non sembra produrre davvero qualcosa, ma venire meno a questo predominio sentimentale significherebbe perdere la preminenza nella sfera degli affetti, quindi è tendenzialmente scoraggiato, soprattutto quando la coscienza politica può essere trasformata in un complemento d’arredo.
Questa estate ho letto Girl Online, l’ultimo libro di Joanna Walsh uscito per Verso, a cui sono grata non solo per il titolo di questo pezzo, ma soprattutto, per avermi fatto conoscere l’opera di Berlant di cui sopra. Girl Online è un volumetto complicato, un manifesto sui termini e sulle condizioni che le donne sottoscrivono ogni volta che appaiono online, il cui punto di partenza è che ogni volta che una donna va online diventa una ragazza, intendendo che si trasforma in una costruzione ideale – la ragazza infatti è una specie di Polly Pocket da vestire dell’identità adeguata alla circostanza (dato per cui le ragazze sono anche un mercato fertilissimo).
Vado online per capire chi sono, scrive Walsh, e lo schermo, invece di riflettermi, mi trasforma in un esempio – “scelto per te”, “altri utenti hanno comprato anche”, “12 boards come la tua”. Online le ragazze sono avatar dietro cui si potrebbe nascondere chiunque – allo stesso tempo catalizzano l’attenzione, senza apparire mai minacciose. Dai chatbot alle modelle digitali, alla Libertà che guida il popolo di Delacroix o la ragazza diventata immagine delle manifestazioni in Sudan sono, appunto, ragazze, facce della rivoluzione, ambasciatrici di un nuovo ordine – non hanno nomi, non sono individualizzate, rispondono a un ruolo. Più vaga è la loro identità, più sono rappresentative – se sono potenzialità infinite e complesse, spazi bianchi che all’occorrenza possono essere trasformati in qualsiasi cosa, significa che nel presente non sono mai niente. Come dice Susan Sontag, in The Double Standard of Aging, una ragazza è troppo vecchia non appena smette di essere troppo giovane – questo la mantiene in una crisi continua.
Quella crisi si può utilizzare, però, a patto che abbia un arco narrativo riconoscibile. Spaghetti & Why I Don’t Have Kids lo sa bene e non sparpaglia la sua sofferenza, ma la organizza in 30 secondi puliti, concludendo le montagne russe della vita con una quieta accettazione, per il nostro bene. “Un tempo i diari erano privati”, scrive Walsh, ed erano pensati per raccogliere segreti, pensieri indicibili – poi sono arrivati i blog, che hanno portato le stesse confessioni online. La letteratura confessionale infatti è così universalmente femminile che si chiama anche saggio personale, perché di cos’altro dovrebbero parlare le ragazze se non della loro vita intima, che è l’unica cosa che posseggono? Quello è il suo spazio di dominio – e si basa sull’assunto che la vita privata possa essere tranquillamente confezionata e venduta, pur rimanendo personale, per il piacere voyeuristico o l’intrattenimento altrui.
Se sei fortunata, come Korean Vegan, puoi trasformare la tua vita in una fonte di reddito, allargare i buchi finché chiunque non si possa mettere nei tuoi panni, condividere il tuo dolore in pillole, diventare oggetto tra gli oggetti, modello tra i modelli, accompagnare chi ti guarda – e anche tu ti stai guardando – in un mondo migliore, dove tutto è perdonato.