Candy Crush ed empatia – Gua Sha n. 36
60 secondi di inskippabile pubblicità
Non avendo uno smartphone, non ho mai visto le pubblicità di cui parla Elisa in questo pezzo e nemmeno giocato a uno di questi giochi, però mi è capitato più di una volta di parlare con qualcuno mentre ci stava giocando e dissimulava maldestramente la cosa annuendo di fronte a mie affermazioni palesemente incondivisibili. In compenso, al pari di Elisa, non ho letto L’alba di tutto e Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, benché abbia assistito a una conversazione tra due persone che avevano letto entrambi i libri ed erano in totale disaccordo tra di loro. Il disaccordo non riguardava né il contenuto, né l’interpretazione dei libri, quanto l’eventuale legittimità a parlarne che ognuno dei due rivendicava in virtù di qualcosa di ineffabile, come accade spesso quando si rivendica qualcosa che non si sa esprimere in maniera dignitosa. Questa premessa, che sembra non mi stia portando da nessuna parte, in realtà mi ha fatto tornare in mente un episodio relativo al concetto di empatia. Una volta il conduttore di un programma televisivo d’inchiesta per il quale lavoravo mi ha urlato in faccia che non capivo un cazzo (citazione testuale: “Veronica, non capisci un cazzo”). Non capivo un cazzo perché mi rifiutavo di scrivere il copione di una puntata sulle occupazioni di casa a Roma ricorrendo all’immagine di un girone dantesco denso di sofferenza e umiliazioni. Di base mi urlava in faccia perché contrapponevo la possibilità di un’analisi vagamente sociopolitica sul disagio abitativo a una restituzione fortemente empatica del “dolore degli altri” (a parte il fatto che quel presunto “dolore degli altri” mi riguardava da vicino visto che in quel periodo stavo pensando di occupare una casa). C’era qualcosa di intimamente divertente e paradossale in un uomo più grande di te, in una posizione gerarchica superiore alla tua che ti urla in faccia e ti dice che non capisci un cazzo perché non sei abbastanza empatica, e di fatti mi veniva da ridere ed era quello che cercavo di fargli notare, ma che doveva farsene lui dell’arida dialettica di una persona non empatica?
Sono stata mandata via dal programma e il giornalista empatico non mi ha mai chiesto scusa per avermi urlato in faccia (però per fortuna sono stata pagata, visto che avevo un contratto, cosa estremamente importante per noi persone non empatiche).
Quando ho visto la puntata in questione c’era il voice-over del giornalista empatico che diceva “girone dantesco” e menzionava i famosi ratti di Roma, sempre specchio e metafora di tutto, e sempre in prima linea quando bisogna parlare di disperazione e non si vogliono usare dati. Si vedevano carrellate di donne e bambini piangenti, uomini annichiliti, e poi si vedeva anche il giornalista empatico con una mano posata sulla spalla di un occupante mentre con l’altra si asciugava una lacrima ben inquadrata.
– Veronica Raimo
Real Life
di Elisa Cuter
Non ho ancora letto David Graeber e David Wengrow L’alba di tutto, né Rutger Bregman Una nuova storia (non cinica) dell’umanità. Li considero insieme quindi solo sulla base delle loro quarte di copertina e potrei stare prendendo un granchio colossale, ma ho come la sensazione che se dovessi fare un paper accademico sul fenomeno di cui sto per parlare dovrei metterli entrambi in bibliografia. Non credo che scriverò mai davvero qualcosa di serio e documentato su quello di cui mi accingo a parlare, sebbene ci sia chi ne ha fatto della theory, ovvero Alfie Bown con Capitalismo e Candy Crush (ma non ho ancora letto neanche quello). Io non voglio parlare di videogiochi da smartphone, ma di qualcosa ancora più infimo: le pubblicità dei giochi per smartphone che mi compaiono costantemente davanti sui social, o mentre gioco ai miei giochi per smartphone da anziana signora, come appunto Candy Crush, che non ha bisogno di presentazioni, Water Sort, in cui devi riempire delle fialette di liquidi dello stesso colore (propedeutico agli scacchi, mi dice gente che ci sa giocare), o la mia ultima certamente non magnifica ossessione Woodoku (una specie di tetris meno incalzante).
Le pubblicità che appaiono tra una partita e l’altra sono quasi sempre di puzzle o “match three” in cui in sostanza quello che devi fare è sempre abbinare qualcosa su una tabella per fare scomparire la fila e progredire (ad infinitum) nel gioco, ma a supplire alla monotonia del processo arriva una abnorme narrazione nella quale il momento di attività ludica vera propria è inserita. Per accedere al progredire della trama devi risolvere i puzzle. Praticamente come se per guardare la prossima puntata di Beautiful – paragonabile per livello minimo di plot twist (lo guardavo in genere una volta a settimana quando pranzavo da mia nonna, e nei quattro episodi che mi ero persa non era successo mai niente se non una sequela di primi piani di Brooke allusiva, Ridge confuso e Stephanie oltraggiata) dovessi “sbloccarla” giocando a un rompicapo – paragonabile alla vita reale che conduceva lo spettatore medio nelle ventiquattro ore che separavano la prima fascia pomeridiana di un giorno e quello dopo, se vogliamo. La dinamica effettiva del gioco che viene presentato da queste pubblicità è talmente banale che quello su cui puntano per vendere sono le conseguenze (catastrofiche) che il tuo non saper giocare potrebbe avere sulla trama.