Nel quarto numero di Gua Sha, Ivan Carozzi scrive “ricordo che l’onorevole si mise a sedere in modo piuttosto scomposto, a gambe larghe, con questi piedi massicci da neanderthal, fasciati in calzini blu dalla fibra preziosa e infilati nei mocassini. Aveva con sé un panino avvolto in una carta bisunta”. Il politico in questione era Casini, che prendeva a boccate il panino prima di partecipare a un programma in diretta televisiva per cui Ivan stava lavorando. Finito di mangiare, “si pulì la bocca con le dita e lasciò i resti del panino dentro la carta aperta, sopra al tavolo dove io stavo lavorando”. C’è qualcosa di dantesco in questa immagine, un omone un po’ orrendo che divora il suo pasto rumorosamente, con la prepotenza della fame e del potere, sembra di stare nell’Inferno. Invece Ivan, mangiando il suo panino sulle panchine di parco Solari, “sparge a terra tutta una grandinata di briciole” e c’è qualcosa di delicato e puro nel suono ovattato del pane che cosparge il selciato, come la malinconia delle anime del Purgatorio che si guardano indietro alla ricerca di qualcosa di perduto. Questo speciale di Gua Sha, voluto da Carozzi, sembra informato dalla stessa innocenza, dalla visione retrospettiva dei panini di una volta: il panino è un atto democratico, secondo Marco Prato il panino è uno scrigno di pane con sorpresa, il panino è la scuola media per Elisa Cuter, e Francesca Mastruzzo ne esalta l’idea come di un rito privato, una ricompensa. Sottsass diceva che gli americani amano i sandwich, perché sono dei puritani e devono nascondere la fonte del piacere, come gli ortodossi religiosi che fanno l’amore tenendo un lenzuolo in mezzo. Diceva che “tutta quella gente lì, se avesse potuto, o se potesse, eliminare qualunque piacere, qualunque porco godimento, qualunque sugoso, felice, splendente evento nella vita l’avrebbe fatto o lo farebbe subito”. Eppure io sento che la libidine è lì in mezzo, prossima ma invisibile, ne sentiamo già l’odore.
– Sara Marzullo
Sviss sviss
di Ivan Carozzi
Dalle parti della stazione Termini, a Roma, esiste un posto che si chiama Er buchetto. È uno stanzino di pochi metri quadrati. Stando alla scritta sulla tenda sopra l’ingresso, Er buchetto esisterebbe addirittura dal 1890. Potrebbe averci mangiato perfino Trilussa. L’ho scoperto per caso un giorno in cui avevo molta fame e non so come, andando verso la stazione, ci sono capitato di fronte. Dentro a Er buchetto si sta stretti, ci sono giusto un paio di tavolini e il banco con i salumi e l’affettatrice. I soffitti non sono particolarmente alti, tutt’altro. Sembra di stare in una scatola. Il proprietario è un tizio scorbutico, con una faccia un po’ lupesca che mi ha ricordato quella di Corrado Orrico, vecchio allenatore di Inter e Lucchese. Ho chiesto se per caso ci fosse una presa dove attaccare il telefono e mi ha risposto in modo brusco, dicendomi che sì, c’era una presa, però non avrei potuto approfittarne per fermarmi quanto volevo. Una volta consumato, insomma, me ne dovevo andare. Non è che potevo restare lì delle ore, come fanno certi venti-trentenni nei bar dopo aver tirato fuori il computer. A un altro tavolo era seduto un conoscente del proprietario e insieme parlavano del più e del meno, prima a proposito del divorzio di un amico dè Pomezia e poi a proposito del ponte di Ognissanti. Il conoscente era più loquace, mentre il proprietario di Er buchetto aveva sempre una strana fretta di chiudere il discorso, come se non ci fosse materia che meritasse troppi ragionamenti e che non si potesse liquidare con una sola frase. Ho intuito che il carattere del proprietario di Er buchetto doveva essersi modificato nel tempo. Probabilmente, ho immaginato, si era logorato, era diventato più duro e scafato a causa del contatto quotidiano con i turisti e con le loro suppliche fastidiose, nonostante Er buchetto si trovi in una posizione piuttosto imboscata e non direttamente esposta al passaggio di chi entra ed esce dalla stazione Termini, tanto che può ancora verificarsi che un conoscente vada a trovare il titolare e passi un po’ di tempo chiuso lì dentro, seduto a una tavolo di Er buchetto, a due passi dalle auto in transito per via Giolitti e Piazza dei Cinquecento, come se fra quei due tavoli sopravvivesse qualche residuo di quel tipo di socialità che animava le botteghe di trenta o quarant’anni fa. Tutte cose che però, mi viene il dubbio, forse noto soprattutto io, vivendo a Milano, dove certe forme di convivialità e certi modi di perdere il tempo, seduti sopra una sedia in un bar a mezzogiorno, non esistono più da un pezzo. Anche se la specialità del posto è la porchetta – decantata in alcuni trafiletti di giornale incorniciati – ho chiesto un panino con la mortadella e un bicchiere di vino. Ho posato lo zaino, mi sono seduto e ho fatto ciò che amo più fare: ho aperto un libro in attesa di mangiare. Nel frattempo il proprietario di Er buchetto, con la sua faccia scaltra e lupesca, si era spostato dietro il bancone di un metro e mezzo, aveva preso un panino, tagliato a metà con un coltello e steso sopra un tagliere, poi dallo scaffale sottostante aveva preso con tutte e due le braccia un’enorme mortadella per piazzarla sull’affettatrice, quindi aveva iniziato ad affettare, dopodiché aveva preso ad accogliere tra le dita le fette sottili di mortadella, adagiandole una dopo l’altra tra le due bianche metà del panino, con quel ritmo armonioso e quella grazia da arpista che l’affettatrice è in grado d’infondere nel sistema nervoso somatico anche del più ruvido salumiere o bottegaio. Il sibilo discreto dell’affettatrice, quello sviss sviss cerimoniale e segreto che si produce ogni volta che la lama attraversa il corpaccione rosa della mortadella, era lo stesso sibilo felpato dell’affettatrice usata da mia nonna nel suo vecchio negozio di alimentari, lo stesso sviss sviss degli altri alimentari dove mi è capitato di entrare da piccolo, magari passando attraverso una tenda di perline, sciolta o annodata al centro. In particolare il negozio di alimentari dove andavo ogni mattina, all’epoca delle scuole elementari, per chiedere un panino con la mortadella che mi veniva recapitato, tutto avvolto all’interno di una lucente carta bianca, dalle mani di una signora abbigliata con un camice celeste. Crescendo, il mondo intorno a me è cambiato e lentamente la presenza dei negozi di alimentari si è sempre più diradata, fino a quando non sono spariti del tutto. Spesso mi è capitato di chiedere un panino al banco del reparto salumeria di un supermercato, ma per qualche strana ragione gli addetti alla salumeria mi hanno detto di non essere autorizzati a preparare panini e che tuttalpiù potevano vendermi un panino con il salume infilato a parte dentro una busta. Così mi è successo di sedermi in pausa pranzo su varie panchine di Milano, in piazza Aspromonte o al parco Solari, di aprire il panino in autonomia con il dito indice e poi di riempirlo con l’affettato preso furtivamente dalla busta, quindi cominciare a dargli un morso e un altro morso, spargendo a terra tutta una grandinata di briciole. A volte mi capita di avere fame nel bel mezzo di una giornata, e come un cane colpito da un riflesso condizionato, da un’immagine cristallizzata nella sua mente canina, continuo a pensare a quei panini splendenti e primordiali, acquistati a poco prezzo negli alimentari frequentati da piccolo.
Non sono riuscito a leggere una riga del libro che avevo aperto sul tavolino di Er buchetto. Dopo poco il proprietario è arrivato e mi ha consegnato il panino con la mortadella, una mortadella profumata, che debordava dalla pagnotta aperta. Il panino era avvolto dentro una carta bianca, simile a quella usata nell’alimentari dove andavo da bambino prima della scuola, però, chi lo avrebbe mai detto, questa carta che avvolgeva oggi il pane era ancora più bella e scintillante di quella toccata dalle mie dita di bambino.
Scrigno di pane con sorpresa
di Marco Prato
Qualche anno fa sono entrato in un bar e ho ordinato un panino al prosciutto crudo e fontina. I panini al prosciutto crudo sono i miei preferiti, soprattutto quando la quantità di grasso è ben bilanciata. Ma questo non si può prevedere al momento dell’ordinazione, bisogna semplicemente abbandonarsi al destino. In quel periodo abitavo a Roma e mi capitava spesso di mangiare panini buonissimi: di solito andavo in una salumeria dove un signore in camice bianco riempiva le ciabattine, l’unico tipo di pane che aveva, con qualsiasi tipo di prodotto esposto in negozio. Io gli chiedevo di mettermi insieme al prosciutto crudo anche i carciofini sott’olio: ho sempre provato un sottile brivido di pericolo nel mangiare cibi sott’olio per via del botulino, ma di quel salumiere sentivo che mi potevo fidare. Forse il fatto che indossasse un camice bianco me lo faceva associare a un dottore e di conseguenza mi sembrava implausibile che potesse somministrarmi roba nociva.
Invece quel giorno al bar, nel mio panino prosciutto crudo e fontina, trovai un pelo riccio, spesso e di un nero intenso. Pur avendo la pessima abitudine di mangiare velocissimo, quel giorno forse mosso da un inconsapevole avvertimento inconscio, mi fermai appena prima di addentare il pelo, che stava disteso fra la fontina e il prosciutto esattamente in mezzo al panino: la posizione così precisa e calcolata mi portò a pensare che doveva essere stato piazzato in quel punto di proposito. Non sono solito lamentarmi, ma l’incontro con quel pelo mi frastornò: lo feci presente al barista, un signore con gli occhi gonfi di chi soffre di tiroide, che mi guardò infastidito e mi chiese: “È riccio?”. Controllai di nuovo il pelo: di fronte a quella domanda, a quanto pareva cruciale, volevo essere sicuro prima di rispondere. “Sì, è riccio”, confermai e glielo mostrai. A quel punto lui, sempre più insofferente, mi fece segno con la mano di restituirgli il panino e me ne diede uno nuovo.
Per tutto il pomeriggio, e nei giorni a seguire, continuai a pensare a quella domanda, “È riccio?”, come se il discrimine per valutare la fondatezza del mio sbigottimento fosse legato alla provenienza del pelo (pube o ascella = è consentito lamentarsi, altrove = no). E in effetti, dopo averci riflettuto, giunsi alla conclusione che quel barista aveva ragione. Più volte negli anni mi è capitato di trovare dentro i piatti diversi peli, ma ricci come quello mai: tant’è che per nessuno di questi conservo un vivido ricordo, al contrario del pelo nel panino. Inoltre, un conto è trovare un pelo dentro un piatto, esposto alla vista e di agevole individuazione, un altro è scoprirlo nascosto dentro un panino, pronto a saltare fuori senza il minimo avvertimento quando ormai è a pochi millimetri dalla propria bocca. Per questo al panino ci si offre con un cieco atto di fiducia: la sua natura di scrigno di pane ci obbliga ad abbracciare in toto il mistero del suo contenuto, ad accordare in chi lo ha preparato una fede che, in alcuni casi, può anche essere mal riposta. C’è chi non se la sente di affrontare l’ignoto e, una volta a tu per tu con il panino, lo apre per ispezionarne l’interno. Io però, e questo l’ho deciso anni fa, non voglio cedere a questo deprimente svelamento: sono consapevole del rischio che corro e ogni boccone di panino trangugiato senza incontrare peli ha il sapore di una minuscola vittoria.
Forza panino
di Elisa Cuter
FORZA PANINO! È il coro intonato alla fine di Tapparella degli Elio e le storie tese, brano più noto alla mia generazione come “La festa delle medie”. Quando uscì avevo nove anni, e anche alle feste delle elementari era un tripudio di panini, quelli al latte tagliati a metà con dentro una fetta di salame o di mortadella, e sopra una bella bandierina di qualche paese a caso. Alla faccia della voluttà di Paris Hilton nel famoso spot per Carl’s Jr, ma anche di espressioni volgari come “figa carpacciosa” usata dai miei compagni di classe del liceo, tutte cose che ci hanno portato a associare il panino ai genitali femminili (googlate “hamburger pussy” se siete anime candide), per me la parola porta alla mente solo ricordi molto casti e preadolescenziali. C’è stata una fase all’università, nei primi anni della triennale, in cui ho stretto con due compagne di corso un’amicizia al limite del morboso. Eravamo inseparabili. Ci gravitava attorno altra gente ovviamente, ma per noi tre il non plus ultra del divertimento e del piacere era starcene tra noi nelle nostre camere in appartamenti condivisi a romanzarci le nostre esistenze a vicenda fino all’alba, usando il supporto di foto vecchie in cui le altre non erano ancora comparse nelle nostre vite, in cui illustrare ogni singola comparsa e le gesta legatevi. Piccolo inciso, doveroso visto il tema: quando ci trovavamo da me andavamo spesso a mangiare il “piccantino”, panino leggendario e dagli ingredienti top secret ideato dai due fratelli che gestivano una vecchia latteria presa d’assalto da liceali della Torino bene all’uscita da scuola. Ad oggi resta il panino più buono che io ricordi, la latteria non esiste più, e neanche il piccantino, che io sappia. Torniamo alle nottate con le amiche: è stato un processo di revisionismo della nostra esistenza passata. Ci serviva per lasciarcela alle spalle e non tornarci più, forse, chissà. O forse è quello che succede nelle prime fasi dell’innamoramento: ci si racconta a vicenda il proprio passato, magnificandolo un po’. Comunque, avevamo vent’anni e ci sembrava di avere molto vissuto. Siamo andate a Londra per qualche giorno e davanti all’insegna di Forever 21 abbiamo avuto un’illuminazione sconvolgente: forse non eravamo vecchie! Forse i vent’anni erano un’età della vita del tutto rispettabile e giovanile, c’era chi si augurava di averli per sempre! E noi che avevamo pensato di avere raggiunto il nostro prime alle medie! Per me, comunque, la sensazione di essere stata all’apice del successo alle medie ha proseguito per un po’. Ti piace vincere facile, mi viene da pensare oggi: tutti gli altri le odiano, sono goffi e sgraziati, quindi è facile essere popolari alle medie, specie se ti sviluppi in ritardo e non hai ancora un brufolo in faccia e se nel frattempo sei per qualche ragione più impaziente degli altri di andare al liceo e ti metti a organizzare un’autogestione “sui temi della bioetica” a tredici anni. Dev’essere stato per quello, comunque, che al secondo anno di università passai mesi a organizzare quello che nella mia testa doveva essere l’evento dell’anno, e che poi non ebbe luogo complice il fatto che iniziai una relazione sessuale segreta con uno che piaceva a una delle altre due: la Festa delle Medie. Avrebbe dovuto avvenire in un qualche oratorio, ovviamente di pomeriggio, con playlist a base di Aqua, Cartoons e Alex Britti. Outfit d’antan: pantaloni a vita bassa in tessuto tecnico, t-shirt della Onyx e mascara per capelli blu elettrico o lilla. Bon bons di Malizia come se non ci fosse un domani. Niente alcol, solo bibite tra cui l’immancabile SPUMA. Panini a profusione, manco a dirlo. Rigorosamente serviti su piatti di carta, come i bicchieri su cui scrivere il nome (pratica che il Covid avrebbe riportato in auge). Erano passati solo sette anni dagli esami di terza media. Oggi ne sono passati quindici da quando volevo organizzare quella festa, e ancora non mi è passata la voglia.
Uno strano rito legato al panino
di Francesca Mastruzzo
Nel 2001 scoprii che un rito collettivo a cui avevo preso parte nella mia infanzia non esisteva. O meglio, non esisteva al di fuori della mia classe delle elementari. Era un fenomeno nato tra i bambini di quelle quattro mura ma l’avevo dato tanto per scontato da universalizzarlo. A pensarci a posteriori, avrei dovuto dubitarne subito. Ma dei riti collettivi non si dubita. Almeno finché non si esce da quella comunità.
All’università, per spiegare a un’amica non so cosa, avevo fatto il paragone con “come quando da bambini si fa a gara a schiacciare i panini”. Scoprii che i bambini, in genere, non fanno a gara a schiacciare i panini. E men che meno lo fanno posizionandoli sotto il sedere appena arrivati in aula, in modo da avere il panino più piatto entro l’ora della ricreazione.
Il panino che schiacciavamo io e i miei compagni di classe era quello “a otto”, un pane morbido ma scialbo prodotto a Ragusa, che viene considerato degno solo di essere imbottito. Anzi, è l’unico che viene imbottito. È formato da una coppia di due cerchi concentrici che poi vengono uniti da un lato a formare un otto senza buchi. Quando lo si compra, lo si farcisce, quindi lo si taglia in due e con le metà degli otto si ricavano due panini. Dentro si mette il salame o il prosciutto, al massimo una fetta di caciocavallo.
Non so chi diede inizio a quel rito, non so se alle origini c’era una necessità pratica, magari adattarsi al morso di un bambino, fatto sta che il panino andava schiacciato perché raggiungeva la perfezione estetica nella sua piattezza. Potevano anche esserci più vincitori, ma era evidente che solo un certo livello di piattezza era accettabile e soddisfacente. Se ora vedessi dei panini a otto schiacciati, saprei dire quali soddisfano i giusti criteri.
Per un pane soffice e gonfio come questo occorre molta pressione: ci sarebbero i libri di scuola, ma non li si può accatastare sul banco altrimenti non si vede più la lavagna o si viene ripresi dalla maestra. Lo schiacciamento si fa nella privacy e nell’efficacia della propria intimità. Sotto il sedere. All’inizio stai scomodo, ma sai che presto l’appiattimento trasformerà quel panino in un cuscino fine, rotondeggiante, forse perfetto. Se dimentichi di metterlo tra la sedia e il sedere la mattina presto, puoi recuperare nell’ultima ora o mezz’ora dalla ricreazione, ma dipende tutto da quanto pesi. Puoi anche non essere interessato alla gara, ma sai qual è la forma ideale, l’idea platonica di pane a otto, perché quella è la cultura in cui sei cresciuto. Quella della comunità della mia classe delle elementari.