Il panino – Gua Sha n. 51
Lo sviss sviss cerimoniale dell’affettatrice
Nel quarto numero di Gua Sha, Ivan Carozzi scrive “ricordo che l’onorevole si mise a sedere in modo piuttosto scomposto, a gambe larghe, con questi piedi massicci da neanderthal, fasciati in calzini blu dalla fibra preziosa e infilati nei mocassini. Aveva con sé un panino avvolto in una carta bisunta”. Il politico in questione era Casini, che prendeva a boccate il panino prima di partecipare a un programma in diretta televisiva per cui Ivan stava lavorando. Finito di mangiare, “si pulì la bocca con le dita e lasciò i resti del panino dentro la carta aperta, sopra al tavolo dove io stavo lavorando”. C’è qualcosa di dantesco in questa immagine, un omone un po’ orrendo che divora il suo pasto rumorosamente, con la prepotenza della fame e del potere, sembra di stare nell’Inferno. Invece Ivan, mangiando il suo panino sulle panchine di parco Solari, “sparge a terra tutta una grandinata di briciole” e c’è qualcosa di delicato e puro nel suono ovattato del pane che cosparge il selciato, come la malinconia delle anime del Purgatorio che si guardano indietro alla ricerca di qualcosa di perduto. Questo speciale di Gua Sha, voluto da Carozzi, sembra informato dalla stessa innocenza, dalla visione retrospettiva dei panini di una volta: il panino è un atto democratico, secondo Marco Prato il panino è uno scrigno di pane con sorpresa, il panino è la scuola media per Elisa Cuter, e Francesca Mastruzzo ne esalta l’idea come di un rito privato, una ricompensa. Sottsass diceva che gli americani amano i sandwich, perché sono dei puritani e devono nascondere la fonte del piacere, come gli ortodossi religiosi che fanno l’amore tenendo un lenzuolo in mezzo. Diceva che “tutta quella gente lì, se avesse potuto, o se potesse, eliminare qualunque piacere, qualunque porco godimento, qualunque sugoso, felice, splendente evento nella vita l’avrebbe fatto o lo farebbe subito”. Eppure io sento che la libidine è lì in mezzo, prossima ma invisibile, ne sentiamo già l’odore.
– Sara Marzullo
Sviss sviss
di Ivan Carozzi
Dalle parti della stazione Termini, a Roma, esiste un posto che si chiama Er buchetto. È uno stanzino di pochi metri quadrati. Stando alla scritta sulla tenda sopra l’ingresso, Er buchetto esisterebbe addirittura dal 1890. Potrebbe averci mangiato perfino Trilussa. L’ho scoperto per caso un giorno in cui avevo molta fame e non so come, andando verso la stazione, ci sono capitato di fronte. Dentro a Er buchetto si sta stretti, ci sono giusto un paio di tavolini e il banco con i salumi e l’affettatrice. I soffitti non sono particolarmente alti, tutt’altro. Sembra di stare in una scatola. Il proprietario è un tizio scorbutico, con una faccia un po’ lupesca che mi ha ricordato quella di Corrado Orrico, vecchio allenatore di Inter e Lucchese. Ho chiesto se per caso ci fosse una presa dove attaccare il telefono e mi ha risposto in modo brusco, dicendomi che sì, c’era una presa, però non avrei potuto approfittarne per fermarmi quanto volevo. Una volta consumato, insomma, me ne dovevo andare. Non è che potevo restare lì delle ore, come fanno certi venti-trentenni nei bar dopo aver tirato fuori il computer. A un altro tavolo era seduto un conoscente del proprietario e insieme parlavano del più e del meno, prima a proposito del divorzio di un amico dè Pomezia e poi a proposito del ponte di Ognissanti. Il conoscente era più loquace, mentre il proprietario di Er buchetto aveva sempre una strana fretta di chiudere il discorso, come se non ci fosse materia che meritasse troppi ragionamenti e che non si potesse liquidare con una sola frase. Ho intuito che il carattere del proprietario di Er buchetto doveva essersi modificato nel tempo. Probabilmente, ho immaginato, si era logorato, era diventato più duro e scafato a causa del contatto quotidiano con i turisti e con le loro suppliche fastidiose, nonostante Er buchetto si trovi in una posizione piuttosto imboscata e non direttamente esposta al passaggio di chi entra ed esce dalla stazione Termini, tanto che può ancora verificarsi che un conoscente vada a trovare il titolare e passi un po’ di tempo chiuso lì dentro, seduto a una tavolo di Er buchetto, a due passi dalle auto in transito per via Giolitti e Piazza dei Cinquecento, come se fra quei due tavoli sopravvivesse qualche residuo di quel tipo di socialità che animava le botteghe di trenta o quarant’anni fa. Tutte cose che però, mi viene il dubbio, forse noto soprattutto io, vivendo a Milano, dove certe forme di convivialità e certi modi di perdere il tempo, seduti sopra una sedia in un bar a mezzogiorno, non esistono più da un pezzo. Anche se la specialità del posto è la porchetta – decantata in alcuni trafiletti di giornale incorniciati – ho chiesto un panino con la mortadella e un bicchiere di vino. Ho posato lo zaino, mi sono seduto e ho fatto ciò che amo più fare: ho aperto un libro in attesa di mangiare. Nel frattempo il proprietario di Er buchetto, con la sua faccia scaltra e lupesca, si era spostato dietro il bancone di un metro e mezzo, aveva preso un panino, tagliato a metà con un coltello e steso sopra un tagliere, poi dallo scaffale sottostante aveva preso con tutte e due le braccia un’enorme mortadella per piazzarla sull’affettatrice, quindi aveva iniziato ad affettare, dopodiché aveva preso ad accogliere tra le dita le fette sottili di mortadella, adagiandole una dopo l’altra tra le due bianche metà del panino, con quel ritmo armonioso e quella grazia da arpista che l’affettatrice è in grado d’infondere nel sistema nervoso somatico anche del più ruvido salumiere o bottegaio. Il sibilo discreto dell’affettatrice, quello sviss sviss cerimoniale e segreto che si produce ogni volta che la lama attraversa il corpaccione rosa della mortadella, era lo stesso sibilo felpato dell’affettatrice usata da mia nonna nel suo vecchio negozio di alimentari, lo stesso sviss sviss degli altri alimentari dove mi è capitato di entrare da piccolo, magari passando attraverso una tenda di perline, sciolta o annodata al centro. In particolare il negozio di alimentari dove andavo ogni mattina, all’epoca delle scuole elementari, per chiedere un panino con la mortadella che mi veniva recapitato, tutto avvolto all’interno di una lucente carta bianca, dalle mani di una signora abbigliata con un camice celeste. Crescendo, il mondo intorno a me è cambiato e lentamente la presenza dei negozi di alimentari si è sempre più diradata, fino a quando non sono spariti del tutto. Spesso mi è capitato di chiedere un panino al banco del reparto salumeria di un supermercato, ma per qualche strana ragione gli addetti alla salumeria mi hanno detto di non essere autorizzati a preparare panini e che tuttalpiù potevano vendermi un panino con il salume infilato a parte dentro una busta. Così mi è successo di sedermi in pausa pranzo su varie panchine di Milano, in piazza Aspromonte o al parco Solari, di aprire il panino in autonomia con il dito indice e poi di riempirlo con l’affettato preso furtivamente dalla busta, quindi cominciare a dargli un morso e un altro morso, spargendo a terra tutta una grandinata di briciole. A volte mi capita di avere fame nel bel mezzo di una giornata, e come un cane colpito da un riflesso condizionato, da un’immagine cristallizzata nella sua mente canina, continuo a pensare a quei panini splendenti e primordiali, acquistati a poco prezzo negli alimentari frequentati da piccolo.