Scriveva Nabokov che “la nota propensione dei principianti a violare la propria vita privata inserendo sé stessi, o un sostituto, nel loro primo romanzo è dettata, più che dall’attrattiva di un tema già pronto, dal sollievo di sbarazzarsi di sé prima di passare a cose migliori”. Cose migliori: generiche eppure migliori. Lo scriveva del suo primo romanzo, che è la storia di come gli amori per restare indimenticabili devono rimanere confinati nel passato; del resto lui ha passato tutta la sua vita da esule, prima di scegliere un hotel, il più impersonale dei luoghi, per passare gli ultimi anni. Impersonale, quindi libero: la scorsa settimana Ivan si chiedeva se per caso non fosse lui Roberto, oggi Francesco è una ragazza che firma un modulo per liberarsi dall’identità. L’io stanca, l’io annoia, l’industria dell’io è un’industria estrattiva, ma forse non abbiamo più niente da dire, solo qualcosa da indicare. Questa newsletter dovrebbe essere fatta di sole immagini, forse, di montaggi e collage, di simboli per comunicare telepaticamente. Vorremmo scrivere in codice morse, in puntini e lineette, ma non perché possiate decodificarli, ma solo per vederli, capirci, non spiegarci, sapere e vedere. Immaginiamo gli alieni come luci per questo, penso.
– Sara Marzullo
Novità e limiti atavici della società oggi
di Francesco Pacifico
Questi sono gli ultimi giorni dell’identità e non riesco nemmeno a godermeli. Verranno a prenderci su dei carri e prima di salire ci porgeranno delle tavolette con sopra il modulo per lo scarico di responsabilità, che dirà che salendo a bordo di uno dei carri saremo liberati dall’identità. In cambio della firma ci daranno una camerata. Sono quindi gli ultimi giorni per essere una ragazza. Scrivendo storie sui social che mescolano foto, meme, video del cane di mia madre. Le ragazze faranno di tutto per un lavoro con le ferie pagate. Sono gli ultimi giorni per tirare fuori quel che ho dentro ma non riesco a godermeli. Mi ritrovo continuamente a pensare al momento, così vicino, ogni giorno più vicino, in cui mi arrampicherò alla bell’e meglio sui due pioli della scaletta del carro e mi siederò su una delle panche, che immagino parallele alla strada, e quindi immagino come perderò l’equilibrio non appena il carro riprenderà il cammino, e questa anticipazione, questa aspettativa si infrange, come la stessa onda che sbatte su uno scoglio giorno e notte, contro l’idea che questa corsa sul retro del carro sarà la prima cosa che non potrò raccontare. Eppure non riesco a godermi questi ultimi giorni. Verranno a prenderci su base volontaria, ma sappiamo che la sola cosa che conta è la speculazione che infuria su IG sulla forma di questa camerata. Perché certe amiche che hanno lavorato in uno degli studi di architettura che ha partecipato alla gara d’appalto dicono che si è parlato molto della forma e le funzioni dei tramezzi che separeranno i letti, ma c’era la sensazione che poi per vincere la gara con la solita corsa al ribasso si sarebbero levati i tramezzi. Ora, a me pare impossibile che si facciano camerate e caseggiati, per quanto gratuiti, senza pensare che la transizione sarà complicata e non si può togliere una foglia di fico come il classico tramezzo da cameretta che abbiamo avuto tutti noi che dormivamo con i fratelli. Ci puoi fare la libreria, ci puoi appendere le giacche, i quadretti, le foto, le lampadine (no, le lampadine non più). Queste amiche hanno detto che non hanno poi partecipato alla chiusura del progetto, perché il ministero aveva detto che solamente i direttori o capi progetto potevano sapere qual era la proposta definitiva degli studi che partecipavano alla gara. Questa idea di non avere nemmeno i tramezzi dà da pensare. D’altronde, lo scarico di responsabilità avrà proprio a che fare con il superamento dell’identità.
Mi chiedo se a questo punto non abbia più senso che diventino conventi. Dei conventi con le suore che nel segreto della cella possono amare se stesse e Gesù Cristo senza che nessuno veda dove si infilano le mani, e chiuderla lì. Forse diventerà una camerata religiosa non appena qualcuna si accorgerà di quanto è più facile perdere l’identità nel nome di qualcosa di invisibile. Non potremo cambiare vita – e gratis – solamente per ragioni utilitaristiche come abbattere le spese. Andrà cercata una visione più grande. Tutte le mie energie sono bloccate – o impiegate? – dallo sforzo circolare di capire cosa possono aver deciso, quale gara abbia vinto, se i tramezzi ci saranno; e al tempo stesso quale sarà il nostro adattamento a questa nuova struttura. Perché come piante rampicanti noi ragazze ci attaccheremo questo spazio, diventerà all’istante uno spazio emotivo, un sentimento, una vibe, un’atmosfera. Spero che nelle camerate degli uomini si ammazzino di botte per passare il tempo, e qualcuno muoia, e i più forti vengano ad assaltare la mia camerata. Forse in cambio dell’identità mi ritroverò in un mondo dove altre cose sono possibili, come prendere uno di questi uomini che ha assaltato la camerata e possederlo e poi ucciderlo infilandogli una mensola limata nel femore. Non so come si uccide un uomo.
Una cosa che amo del mondo del lavoro, ma non posso dirla, è che una persona può finire in una lista nera senza venirlo mai a sapere per tutta la vita. Quella che chiamiamo antipatia, quel sentimento che presumiamo naturale e idiosincratico, che rispettiamo come svelto decisore dei rapporti sociali e dunque delle costellazioni che si formano tra le persone sia nel lavoro che nella vita fuori dal lavoro, è in realtà una complessa e vitale forma di automanipolazione con cui la persona può decidere di dichiarare guerra a un’altra persona. Continuamente, finiamo nelle liste nere degli altri: queste liste sono pizzini malefici travestiti ai propri stessi occhi del sentimento spontaneo dell’antipatia. Sono in realtà violentissimi atti politici, riassunti rotondi di metodi malavitosi. A una persona sale un pensiero negativo su un’altra, “oh, sarà che mi sta antipatica”, e la sua malavita si mette in moto, senza nemmeno accorgersene (perché non accetterebbe di star facendo quel che sta facendo) la persona attiverà tutti i suoi contatti, comincerà a condurre una segreta (a lei stessa) opera di convincimento per fare terra bruciata attorno alla persona “antipatica”.
Solo le persone paranoiche dedicano del tempo a ragionare su queste liste nere, queste liste di proscrizione. Ci si dedicano così ossessivamente che vengono trattati come pazzi e invitati a desistere, a lasciare che il normale gioco dell’antipatia organizzi la società. In verità, l’aspetto più seducente di queste liste nere è che sono capaci di soffocare nel soggetto ogni senso di responsabilità per gli altri in nome della comune umanità. La persona “antipatica” verrà sistemata in un invisibile quartiere disagiato, dove non riceverà più servizi, non arriveranno gli autobus, i muri ammuffiranno, l’amianto non verrà smantellato dai tetti. Forse tolleriamo tutto ciò perché sappiamo che la persona accusata di “antipatia” non vive soltanto nel quartiere disagiato dove l’ha messa – scaricando ogni responsabilità – la persona che ne ha sentenziato l’antipatia. La persona antipatica ha tutto il diritto di muoversi per abitare – nella mente di ulteriori persone – i quartieri più serviti e con più verde.
C’è il caso di qualcuno che vive solamente nei quartieri svantaggiati di tutti, per la colpa insopportabile della sua antipatia. Il destino di queste persone è come quello di chi vivesse, nel multiverso, in un’infinità di mondi insopportabili: dove cioè la novità non portasse mai speranza, ma fosse la perenne novità della solita miseria.
Provo una pena cosmica per queste persone, e faccio il possibile per non essere la “antipatica” di tutti, avere dunque qualcuno che mi possa tenere nelle sue zone migliori, considerarmi sempre una persona. Chi, come me, non ha conosciuto in famiglia la fortuna di essere “simpatico” ai parenti, sa che il lavoro per costruire comunità – dove non essere antipatici agli altri – non conosce festivi né scioperi.
Il sentimento principale che provo, molto più della pena per gli “antipatici” e il loro destino, è però l’euforia che mi dà la semplice idea che l’umano sia capace, per capriccio, di cancellare chiunque dal suo orizzonte: e quanto tempo spenda poi per nobilitare questo suo capriccio con i discorsi più pelosi.