Treni. Doveri. Foschia. Ritardi. Eritemi. Cattiverie. Paragoni. Ambizioni. Stabilimenti. Colori. Convinzioni. Condotti di aerazione. Complessi. Pregiudizi. Rosari. Rivelazioni. Circuit breakers. Parabole discendenti. Ossicini. Delusioni. Questioni. Durezze. Privilegi. Ansimi. Ansie. Malattie della pelle. Padri. Soldi. Inimicizie di lunghissima data. Clan. Presunzioni di colpevolezza. Esaurimenti. Momenti promozionali. Malattie. Invenzioni giornalistiche. Rivestimenti con l’amianto. Architetture vernacolari. Possibilità di scelta. Ventriloquismi. Patti col diavolo. Momenti di sconforto. Verbi. Azioni. Depressioni. Enablers. Pastìccini. Spuntini. Tortillas. Intestìni. Voti. Tute. Peletti. Banalità. Ripensamenti. Arroccamenti. Fatture elettroniche. Campioni della gente. Buone azioni. Tasse di successione. Pire funerarie. Esotismi. Enigmi. Peccati. Giardini. Furgoni. Pensioni. Gasdotti. Golosità. Allergie. Capanne. Motociclette. Lesioni. Documenti. Cartelloni. Ascensori.
– Francesco Pacifico
E se fossi io Roberto?
di Ivan Carozzi
Unknown unknowns è una mostra inaugurata qualche mese fa alla Triennale di Milano. Come potrei tradurre questa espressione? Forse con Ignoti ignoti. O con Sconosciuti inconosciuti. All’interno della mostra sono esposti più di cento oggetti, molto diversi tra loro. C’è una tela di Alighiero Boetti, Mettere al mondo il mondo, tutta disegnata a penna biro (quanto è bella, sembra un mare), ma pure l’animazione su un grande schermo, dove è simulata la collisione tra la Via Lattea e la galassia di Andromeda, prevista tra cinque miliardi di anni. Il titolo è probabilmente ispirato a un documentario di Errol Morris, The unknown known. Nel documentario Donald Rumsfeld, ex Segretario alla Difesa americana, pronuncia una lunga locuzione, dove il suono e la forma delle parole sono tanto seducenti e propiziatori, quanto il contenuto razionale della frase è portatore di una rivelazione e di una strategia di pensiero:
As we know, there are known knowns; there are things we know we know. We also know there are known unknowns; that is to say we know there are some things we do not know. But there are also unknown unknowns – the ones we don't know we don't know.
Unknown unknowns è ricca, potente, misteriosa, vertiginosa. C’è un oggetto in particolare che mi ha emozionato. È il lavoro di un artista italiano di nome Luca Pozzi. L’opera si trova verso la fine dell’allestimento, a pochi passi dal quadro di Boetti. Si tratta di un comune specchio circolare, di quelli che possono essere fissati alla parete di un bagno grazie a un braccetto telescopico. La superficie dello specchio è bluastra, come la luce di certi crepuscoli invernali. Ciò che lo distingue da un comune specchio è il fatto che al suo interno è nascosto un rilevatore di muoni. I muoni sono particelle subatomiche che si generano dall’attrito tra i raggi cosmici e l’atmosfera terrestre. Ogni volta che lo spazio è attraversato da un muone, il rilevatore ne registra la presenza. A quel punto sullo specchio si produce una specie di lampo. Nel minuto in cui ho sostato di fronte allo specchio, ho visto più di una volta un bagliore biondo saettare sopra la mia faccia riflessa. Significa che un muone era appena circolato nelle mie vicinanze. Non solo il muone è una grandezza invisibile e infinitesimale, ma è un’entità che proviene da regioni lontanissime dello spazio cosmico. Eppure il muone era lì, al secondo piano di un edificio a Milano. La fiammata comparsa sullo specchio ne era la prova. “There are also unknown unknowns”. Fino alla sua scoperta il muone faceva parte degli oggetti e delle infinite realtà la cui esistenza non era neppure supposta. Erano “Unknown unknowns”. “Ignoti ignoti”. “Sconosciuti inconosciuti”.
Ma noi respiriamo e camminiamo, dormiamo e ci svegliamo, costantemente immersi nell’inconosciuto. La nostra vita di ogni giorno, in casa e per strada, si svolge accanto a processi della cui esistenza e del cui funzionamento siamo completamente all’oscuro. Una persona che conosco, di nome Pamela, non ha mai saputo che io spesso, dentro di me, la chiamo “Mela P”. E neppure sa che quando vedo un’insegna del supermercato Pam, il pensiero corre a lei. Non conosce le ragioni per cui nella mia mente ogni tanto ha luogo un piccolo evento elettrico collegato all’immagine di lei. Forse nel momento in cui sto scrivendo, qualcuno mi sta pensando, ma io non ne ho coscienza. E che cosa starà pensando di me, chi legge queste righe? La settimana scorsa, ascoltando il podcast di un’intervista radiofonica, ho sentito per la prima volta una parola di cui ignoravo l’esistenza: “spaghettificazione”. Dall’inglese: spaghettification. “There are also unknown unknowns”. Un amico mi ha raccontato di aver incontrato una sua vecchia conoscenza dopo molto tempo. Non si rivedevano da tantissimi anni. Questa sua vecchia conoscenza aveva da poco scoperto che il padre, all’epoca in cui lui era adolescente, lo aveva fatto pedinare da un detective privato. Il detective lo aveva fotografato all’interno di Parco Sempione, un pomeriggio di venticinque anni fa, mentre era seduto su una panchina e fumava una canna in compagnia del mio amico. Dato che la foto esiste ancora, ha mostrato la foto al mio amico, che così ha rivisto il sé stesso di venticinque anni fa seduto su una panchina di Parco Sempione, inquadrato dal teleobiettivo di un detective privato. Non è vertiginoso?
Qualche settimana fa camminavo lungo via Varanini lucida di pioggia, a Milano. Giunto all’incrocio con piazza Morbegno, un signore anziano, incrociandomi sul marciapiede, si è voltato verso di me e mi ha guardato con un’aria esterrefatta e quasi spaventata. “Ma allora sei guarito…”, mi ha detto con un filo di voce. Io l’ho guardato, a mia volta stupito e stralunato, e gli ho chiesto: “Scusi, in che senso ‘guarito’?”. Lui ha continuato a guardarmi, con occhi interrogativi e spalancati, poi mi ha detto “Ma… non sei Roberto?”. Al che ho risposto di no, che non ero Roberto, ma lui ha continuato a guardarmi, come se facesse fatica ad ammettere che non ero Roberto, ma qualcun altro. A un certo punto lo stupore si è trasformato in irritazione. L’uomo si rifiutava di accettare che non fossi Roberto. A quel punto gli ho domandato chi fosse questo Roberto e il signore mi ha risposto che Roberto è una sua conoscenza, è un ragazzo malato di cancro, e per un momento, vedendomi per strada e in salute, si era illuso che fossi guarito. Dopodiché ha proseguito per la sua strada, sotto il piovischio, di malumore e contrariato, deluso e quasi infastidito dalla mia faccia, che non era quella di Roberto, come per un attimo aveva sperato. Io me ne sono andato verso via Ferrante Aporti e dopo un po’ mi è venuto da pensare: “E se fossi davvero io Roberto?”.