Nel 1958 Yves Klein elabora Le vide, una mostra alla galleria parigina Iris Clert. Nel biglietto di invito scrive: “Iris Clert vi invita ad onorare, con tutta la vostra Presenza emotiva, l’avvento lucido e positivo d’un indubitabile regno del sensibile”. La galleria resterà vuota per tutto il tempo della mostra, carica solo della vibrazione prodotta da Yves Klein, sensibilità blu nel quadro delle mura imbiancate.
Questa settimana su Gua Sha non c’è nessuno di noi – non c’è Ivan Carozzi, né Elisa Cuter o Veronica Raimo – e in quest’assenza trovano spazio un pezzo di Sara Verdecchia, editor e scrittrice, sulla scena partenopea e un audio di Alvar Aaltissimo, architetto napoletano che racconta la Casa delle Barbie di Milano.
Noi siamo lo stesso qui, ambiente. Evento del sensibile.
Ma anche evento off a BookPride Milano (qui la news sul sito e qui l’evento Facebook).
Sabato 5 Marzo: Sun Tzu X Gua Sha
Cassette Cafè, via Tadino 13 (Porta Venezia), dalle 21 in poi.
Gua Sha rivista letteraria in folio dal 1876 fondata da Sara Marzullo e Francesco Pacifico dà la sua prima festa. Al Cassette Cafè. Per BookPride. Proiezioni, struscio, geopolitica.
In questo numero — L’eredità del modernismo nel centenario di Infinite Jest — Racconto inedito di Natalia Gainsbourg: “L’impiegata neoassunta parla di meditazione” — Arbasino contro il Premio Campiello — Le cover band coreane, di Clarice Lispector — Tutte le scuole di scrittura di domani — E il reportage “Sesso: sesso”.
Rituale di linfodrenaggio facciale a cura della redazione.
La Galerie Iris Clert è una stanza molto piccola, ha una vetrina e un ingresso sulla strada. Faremo chiudere l'ingresso sulla strada e faremo entrare il pubblico attraverso l'atrio del palazzo. Dalla strada, sarà impossibile vedere qualcosa che non sia blu, poiché dipingerò la vetrina di blu. Anche il lucernario sarà dipinto di blu.
– Yves Klein
Casa delle Barbie
Alvar Aaltissimo, architetto napoletano, instagrammer e autore del volume Case milanesissime, commenta un edificio da lui ribattezzato ‘Casa delle Barbie’ in via Averardo Buschi a Milano.
È così atroce da sembrare quasi interessante.
(Ivan Carozzi lo ha anche intervistato qui).
La scena partenopea
di Sara Verdecchia
Arrivi a Napoli e scopri che ogni mattina c’è un tornado, che non ci sono case vere in cui abitare, che si deve vivere ammucchiati, che si deve procedere per ordine di stimolo, che lo spazio si esaurisce giorno dopo giorno – eppure è ovunque, amletico e verticale. Si deve stare sempre in strada e la prova che Napoli esiste sta nel volume dei polpacci e del culo di chi la percorre. Non a caso si è generato un feticismo articolato per le ragazze che vivono nei Quartieri Spagnoli e al mattino scendono a fare i loro servizi, di rientro sono cariche di bustine e hanno un pitbull al guinzaglio col colore del manto di una tonalità coerente con quella dei loro capelli lunghissimi-liscissimi. Si lamentano ad alta voce per la fatica e lo spettacolo della loro ascensione costringe a innamorarsi almeno cento volte al giorno se non si impara a distogliere lo sguardo verso il mare.
Napoli ha creato se stessa, non c’è nessuna città al mondo oltre questa e i napoletani lo sanno così bene che hanno messo ovunque le etichette per ricordarselo, per farlo sapere a chi viene a guardarla da vicino. I vicoli sono pieni di segnaletica, ti dicono quanto con esattezza devi camminare per vedere i muri pittati da Jorit, o quali sono le migliori file per la pizza e per gli spritz al catrame.
C’è qualcosa, in questa sua messa in scena perenne, nei suoi stenti accatastati, che la costringe ai virtuosismi infernali.
L’estetica del sud è una materia che riluce, da quando i versi di Liberato hanno cominciato a penzolare per la città c’è stato tutto un corri-corri verso il meridione pop, prima che il fenomeno diventasse pubescente e gli cambiasse la voce. Quasi tutto ciò che è manifesto e visibile viene negato e ridotto alla leggenda da chi di questo successo riesce a nutrirsene, in loro c’è uno spazio mentale che rigetta quello di cui la città è costituita – la matriarca che si sbrodola addentando la mozzarella grande quanto il cranio di un neonato esiste e ha un talento naturale per la posa. Dall’altra parte ci sono quelli che la città la scoprono attraverso i programmi televisivi o per i fenomeni virali, come la donna che organizzò una pomposa cerimonia per la prima comunione della figlia ed ebbe una specie di esaurimento nervoso per l’impossibilità di ottenere una torta al gusto panna e swarovski (lo scricchiolio è il gusto della ricchezza), o la tiktoker Rita De Crescenzo, che andò alla ricerca dello yacht di Jennifer Lopez al largo della costa e si mise a gridare agli steward di farla uscire per un saluto. Queste versioni si scontrano e producono conoscenza, operazioni culturali.
Qualche giorno fa ero al PAN per una mostra di alcuni artisti napoletani, la scena artistica è transfondente, perché qui ci sono molti nobili disoccupati che amano bere dai flute e vestirsi con abiti che paiono fatti di legno. Per intuizione, ho capito che più sono ricchi e più si vestono da folletti stracciati, coi pantaloni ricoperti di pallini, ma ci sono anche quelli nel mezzo, che ci avevano garantito sarebbero emigrati nelle città europee, che invece vagabondano per le gallerie sibilando giudizi esoterici e investendo nei giovani che non sono ancora scappati (o che sono scappati mantenendo la napoletanità come cifra stilistica). Alla mostra c’era una donna con una borsa di Prada appesa all’avambraccio che passeggiava davanti alle opere di Trallallà (artista noto per le sirene napoletane grasse e discinte che stanno in giro per la città), dicendo ai suoi amici che quelle sirene erano le tipiche chiattone napoletane che “ormai sono ovunque”. È affascinante come certe persone (una classe sociale, una fascia di reddito) riescano ad ammirare e a promuovere una particolare forma d’arte, e al contempo a essere disgustate dagli individui che la creano o rendono possibile. Per le strade è evidente che ci sono persone educate a tenere una postura, ad avere delle aspettative sul futuro, e delle altre che semplicemente vivono alla mercé dell’infinita nostalgia di dettami inconsci. Sono quest’ultime ad aver reso Napoli e il suo folklore così grandiosi. Ogni venerdì sera a via Partenope si può assistere alla fiera della narrativa stereotipata. La strada si riempie di ragazzi in motorino che provano a non schiantarsi sulle auto e le ragazze che sono con loro cercano di impiegare il tempo dell’attesa: con una mano si strecciano i capelli sempre lunghissimi-liscissimi-scurissimi e con l’altra fanno ticchettare le unghie smaltate sugli schermi dei cellulari, inviano messaggi vocali per far sapere quanto sono in ritardo e quanta fame ancora riusciranno a reggere. La schiena scoperta, gli adesivi di Padre Pio sul casco, i tatuaggi-tributo all’amore materno, le parole scambiate con i vicini di motorino… queste persone esistono davvero e i loro corpi creano il sud per come lo si conosce. La società si crea scendendo in strada, come dice SAGG Napoli, un'artista che vive a Londra ma che attinge al proprio retroterra partenopeo per decontestualizzarlo e creare un sistema alternativo che riesca a reggerne il peso. I suoi lavori sono pieni di cliché, lei stessa ha l’aspetto di un personaggio esagerato ed è talmente rilassata nell’esibizione del proprio corpo da non far suscitare il sospetto che ci sia una persona vera dietro quello che mostra, che lei sia dunque proprio quella struttura di meccanismi e di fede grottesca. Scendere significa muoversi, stare in strada, tra Bellini, San Domenico e i Banchi Nuovi, bere nella plastica e fumare l’erba biologica, arracanirsi per il ridere. Tutti quelli che arrivano vogliono vivere un’esperienza indimenticabile e finiscono a mangiare le cozze in una pescheria a Montesanto che apre a mezzanotte o a farsi lanciare addosso manciate di sale; sazi di eccessi e di spirito eurotrash, gli intestini sfiancati, fanno ritorno nei loro paesi sviluppati e dicono di aver vissuto un innamoramento.
Che succede quando l’identità di una cultura diventa performativa?
C’è un mercato aspirazionale in crescita, un perfetto conversation piece in cui si riesce a ricostruire l’oggetto manifestandone un modello di regole di funzionamento, un processo strutturalistico. I contenuti non hanno alcuna esistenza autonoma, partecipano all’estetica in qualità di temi e di immagini di approvvigionamento. Esiste la finzione.
Alfred Sohn-Rethel (filosofo e sociologo marxista) soggiornò a Napoli nei primi anni del Novecento e ricavò una breve riflessione sullo stile di vita partenopeo, un sentore di quella che era l’inclinazione naturale della città. Ne venne fuori una specie di manifesto di incuria per il futuro, per il funzionamento scorrevole, tanto che del cittadino napoletano scrisse “per lui l’essenza della tecnica sta nella messa in funzione del rotto”. La sua non era una premonizione sull’invivibilità che avrebbe colpito Napoli, e dunque il mondo, ma il sospetto che questa città precorritrice stesse cercando di tenersi a galla senza applicarsi in una forza contraria al disfacimento. Negli ultimi cento anni il suolo si è riempito di voragini: la terra si apre e risucchia quello che trova, spesso cose e meno spesso, ma in modo più eclatante, qualcuno che passeggia e finisce nel magma. C’è il rischio concreto di essere ingoiati dalla città. Per strada le persone si fermano nei vicoli scrostati e si chiedono “che fai?” e la risposta è sempre “niente”. Perché crearsi uno scopo se da un momento all’altro puoi sprofondare? Meglio continuare a stare nella scena.