Introdurre Francesco Pacifico è un’operazione liminale, un po’ come ordinare latte e cereali a una cena di lavoro o fare sesso con Unabomber dopo avergli nascosto l’esplosivo ed essersi scordati dove. Il problema di introdurre questo determinato articolo è che condivido ogni singola parola che Francesco scrive. Non conosco Lullabi Haze, ma amo la sua pagina Facebook. Conosco un pochino Alessandro Lolli e gli sono affezionata e, soprattutto, penso sia bravissimo a scrivere. Gli squarci delle vite altrui, vite che potrebbero benissimo essere la mia, aprono varchi sulle cose che pensavo di avere sistemato, nella lista infinita di cose da fare che ticchetta nel cervello di chiunque pensi o provi a lavorare nel mondo incasinato della cultura.
Di lavoro e precarietà scrivo sempre e troppo e che cazzo, quindi parliamo d’altro. Riflettevo sul concetto di vite degli altri, leggendo il pezzo di Fra. Siamo così ossessivamente e compulsivamente appiccicati ai social che conosciamo perfettamente persone che non abbiamo mai visto. Io sono la peggiore: mi sono creata un account finto per spiare il profilo Instagram della nuova ragazza di un mio amico, una tizia che non conosco bene ma che non mi piace neanche un po’. Economia della reputazione? Capitale culturale? No, puro e semplice male gaze interiorizzato e travestito da curiosità morbosa per i cazzi degli altri. Curiosità alimentata da internet: se incontrassi questa disgraziata per la strada, credo non la guarderei nemmeno. Capisco fin troppo bene cosa intende Fra con Sembra che Lullabi Haze tema che non esistano dei soldi e un lavoro per lei nel mondo della letteratura oppure in quello della comunicazione. Sarà perciò che prende Irene Graziosi come nemesi e oscuro oggetto del desiderio. La mia, più che una forma di desiderio, era una scopofilia un po’ stronza. L’ho fatto perché volevo essere rassicurata sul fatto di essere più interessante di lei, ma poi ci ho preso gusto e ho finito per pensarla in termini diversi. Ora non è più la mia sorella eschimese sgradevole, ma la mia sorella eschimese con un ottimo gusto per le piante e uno pessimo per libri e film. Godetevi Francesco Pacifico. Scegliete la vita. Scegliete un maxitelevisore del cazzo ecc. ecc., ma soprattutto prendete fiato dai social, o finirete come me, stanche, irritate e con una pianta che non potete permettervi comprata solo per tenerla meglio di una tizia che non vi piace.
– Sofia Torre
Fama e lavoro
di Francesco Pacifico
Alessandro Lolli sta scrivendo un libro sulla celebrità e nessuno lo vuole pubblicare. È incredibile: facciamo parte ormai di una stratificata rete di micropoteri medievali, che alimentano piattaforme corporate, e non è una cosa di cui si vuole far scrivere un bravo scrittore che ha già scritto seriamente di meme.
Una volta ho chiesto a una persona di intervistarla per scrivere la sua storia in un racconto, e questa persona come prima cosa mi ha chiesto se pensavo di pagarla. Era giusto, perché c’è un potere costruito dalla propria biografia. Il potere di sintesi invece non esiste più. Io stavo prelevando da questa persona del valore: in che modo intendessi o sapessi trasformarlo non contava più di tanto. La fama non è più inseguita e ottenuta solo da una percentuale limitata delle persone, ma è un’impresa diffusa, che crea come sappiamo un’economia quanto la creava l’epoca della celebrità limitata.
Durante il primo lockdown, una volta mi sono messo a nascondere dal feed di Facebook tutte le amicizie e i gruppi che seguivo. Ci ho messo due giorni. Quando sono arrivato alla fine, il mio feed mi ha suggerito di farmi degli amici per seguire cosa stavano facendo. Dopo un periodo col feed vuoto, molto riposante, ho iniziato a seguire solo una manciata di persone. Tra queste, al momento seguo solo tre persone che non conosco personalmente. Voglio parlare di due di queste tre persone.
Lullabi Haze tiene un blog che si chiama bubblecumblog e ha un Onlyfans. L’altro giorno ho letto un suo pezzo che si intitola Vita, morte e miracoli di Irene Graziosi. Si apre con una citazione di Cindy Crawford: “Vorrei essere come Cindy Crawford”. Parla di gente ben inserita nella società. Di Irene Graziosi dice:
Irene Graziosi riesce a stare a gambe incrociate, a piedi nudi, per un tempo infinito. Insieme alla voce suadente, è la qualità in lei che ammiro di più.
Ogni mattina, mi sveglio e penso: “vorrei che le cose fossero andate diversamente”. Diversamente come? Diversamente, Irene Graziosi. So come muove le mani, i suoi intercalari nel parlato e le cose che la fanno sorridere.
Sopra il mio letto c’è un sentiero di pulviscolo luminoso, che porta all’immagine di Irene Graziosi. Mentre parla, le particelle di polvere sospese in aria si accorpano fino a diventare grosse e pesanti, mi cadono addosso, mi scavano buchi nel corpo, e mi rendono irriconoscibile.
Una sera del 2021, con le cosce sul bidet, ti ascolto pisciare e ti spio mentre reclini la testa gaudente: i maschi che pisciano. Scambierei volentieri la mia vita di carne e sangue, che pure io amo, per un’esistenza di ceramica porcellanata, bianchissima e abbacinante. Le bambole, i vasi, la tazza del cesso.
Dondolo sbadatamente i piedi con movimenti studiati, e ti chiedo:
‘Se fossi come Irene Graziosi, ti innamoreresti di me?’
La sofferenza di chi scrive questo racconto è soffocata da una ball gag. È una dissezione di un’aspirazione alla celebrità che sente il bisogno di punirsi e limitarsi per fare letteratura. È un piacere assistere a questa autopunizione. C’è qualcosa di importante.
Nel post su Facebook dove ho trovato il link al pezzo sul blog invece la ball gag non c’è e l’autrice è più dolce. Non è una qualità in sé ma mi è piaciuto il rapporto che c’è tra il tono sibillino del racconto e la tenerezza del post:
Sono innanzitutto una lettrice, questo mi ha reso ferocemente critica verso i testi scritti, in particolare i miei, e questo, lo vedo, è una montagna di difetti. Ci sono, però, poche cose che mi tengono ancorata da qualche parte: il sesso e la scrittura. (…) Un post-it che tengo in un diario dice che se non scrivo tanto vale che mi ammazzo, quindi ci ho riprovato.
Poi a capo, come a rivelare il timore che la maggiore presenza sui social, o successo professionale, o la provenienza da una classe più alta possano spingere qualcuno a schiacciarla come una formica, conclude il post scrivendo: “Irene Graziosi non mi denunciare, ti prego”.
Lullabi Haze scrive come un paria, come fosse impensabile sperare di essere pubblicata bene quanto Irene Graziosi. Mi commuove. La vita social di Lullabi Haze mescola le prove di scrittura, il racconto della sua vita e i teaser del suo Onlyfans. Sembra che Lullabi Haze tema che non esistano dei soldi e un lavoro per lei nel mondo della letteratura oppure in quello della comunicazione. Sarà perciò che prende Irene Graziosi come nemesi e oscuro oggetto del desiderio.
Fin qui di sesso si è parlato molto per educare, ma sta uscendo fuori un nuovo strato di scrittura fatta di disprezzo per la società, confessione della propria povertà, racconto politico, sex work, amore per la letteratura e l’arte. Magari questa combinazione tra qualche mese o anno diventerà un fatto nuovo dell’editoria, magari no, resta il fatto che questo tipo di scrittura vitale e malata merita di uscire fuori.
Un’altra persona interessante che seguo su Facebook si chiama Jerome Costiniano Muir. Ho iniziato a leggerlo durante i lockdown perché la sua posizione di comunista no vax mi aiutava in qualche modo a restare sano, a sentire la sofferenza di chi a differenza di me non voleva vaccini e restrizioni. Io, ipocondriaco, morivo di paura e volevo nascondermi e salvarmi; ma questa paura mi faceva impazzire, allora mi serviva leggere qualche no vax. Poi il tono esagerato, emo di questa persona mi è continuato a piacere e lo leggo ancora.
Un suo post di questi giorni – ho evidenziato alcune cose io:
Quando ero adolescente frequentavo (con scarso profitto) un liceo classico del centro a Roma e, nonostante fosse notoriamente un liceo infestato di “zecche”, in realtà l’estrazione sociale mediamente altina dei miei compagni di scuola mi esponeva a soffrire un certo livello base di discriminazione (in quanto io proletario e disabile).
La cosa che mi ha triggerato di più è il lavorismo dei miei colleghi una volta diplomati. Gente che poteva tranquillamente passare l’esistenza a segarsi spendendo i soldi dei genitori veniva lì a farmi ramanzine perché non avevo fretta di laurearmi o, peggio ancora, perché non lavoravo.
Ho sempre risposto con fierezza che io, essendo figlio di bestie da soma, non avevo nessuna intenzione di farmi sfruttare in cambio di una ridicola medaglia al valore e del cash necessario per bermi quattro cinque birrette a settimana. Piuttosto mi sarei chiuso nella bettolaccia sotto casa a bere vino scadente alla foglia per qualche spiccio o non avrei bevuto affatto. Ed effettivamente mi comportavo in maniera coerente, avendo trascorso dai 18 ai 25 anni praticamente a non uscire o ad ubriacarmi di glappa cinese e vino scadente.
Tutt’oggi trovo insopportabilmente ipocrita l’atteggiamento di chi, essendo benestante o provvisto di capitale simbolico, si vanta anche in maniera subdola di essere produttivo in ambito lavorativo o accademico. Sanno benissimo (e tanto ne soffrono da accanirsi sul punto) di non meritare nulla di ciò che hanno, sanno perfettamente che la loro operosità è avidità, è spazio sottratto a chi ha bisogno, è avallo di un meccanismo sociale che li vuole parassiti legittimati a parassitare.
Da parte mia continuerò a coltivare il mio operaismo semi-inconsapevole (perché il vero proletario è accanitamente antilavorista, il proletario che ha coscienza di classe sa bene che il lavoro è nient’altro che schiavitù e ambisce solo a liberarsene), e sarò sempre orgoglioso di poter affermare finché potrò, come oggi alla veneranda età di trentasei anni, di non aver mai lavorato un solo giorno della mia esistenza. Da questa vita di merda non ho avuto un cazzo di nulla, ma nessun padrone di merda ha avuto niente dal sottoscritto, o almeno non attraverso il lavoro salariato, perché io non sono schiavo di niente e nessuno se non delle cose e delle persone che amo. Ho profondo rispetto – poi – per tutti coloro che invece hanno dovuto lavorare tanto per mantenere il loro posto nel mondo, ma solo ed esclusivamente per quelli che non hanno mai smesso un attimo di odiare il proprio lavoro e la propria condizione, tutti gli altri li compatisco e li disprezzo come si compatiscono e disprezzano i crumiri e i kapò.
(Proprio la settimana scorsa su Gua Sha, non avendo ancora letto questo post, dicevo: “per me la questione del merito non è mai esistita. Le condizioni materiali sono tutto, non c’è altro”. E: “Che ridere le persone che si identificano in qualche role model di Rai Tre, La7 o Internazionale. Che ridere l’idea che un borghese possa mai pensare di essersi guadagnato qualcosa”.)
Quello di Jerome e quello di Lullabi Haze sono due racconti di cui ho bisogno. Questi racconti non sono il contemporaneo spiegato bene di cui il giornalismo progressista vuole curarci una playlist da consumare senza fondo. Sono manifestazioni intermittenti di persone che mi fanno sentire che l’espressione dei sentimenti non è solo, ormai, l’unica industria. Sono esternazioni che mi portano su binari morti, che mi fanno sentire dentro un romanzo di Volodine o di Jauffret, dentro un mondo più spaziale, più tremendo, più bello.
Mentre l’età della curatela ci uccide, ecco degli umani che scrivono cose che voglio leggere.