ll pezzo di Sara di questo numero era stato pensato e scritto per il Tascabile. Al Tascabile paghiamo 100 euro lordi ad articolo. Dunque ora devo 100 euro lordi a Sara, visto che io sono editor del Tascabile e questo è uno dei motivi per i quali questa settimana non sono riuscita a rispettare la consegna per Gua Sha. Così ho proposto a Sara di mettere invece questo suo pezzo, che mi sembrava troppo personale e narrativo per Il Tascabile. Effettivamente però questi limiti lo rendono la recensione perfetta al libro di Eula Biss di cui parla: un libro che non capisci bene dove vuole andare a parare, ma che ti invita a pensare come fa l’autrice. Vale a dire a provare a scovare assurdità del capitalismo, paradossi e storture tra le quali io annovero il senso di colpa che attanaglia quelli che, come Sofia diceva la settimana scorsa “fanno un lavoro che amano”, e che, come dicevano invece i Dire Straits, ottengono money for nothing and the chicks for free. Biss nel libro parla di questa canzone, in cui Knopfler si immedesima in un fattorino che esprime la sua invidia e il suo disprezzo verso gli artisti. È una presa di coscienza o una mossa di orgoglio quella di Knopfler? Chi lo sa e soprattutto cosa importa. La working class ha tutte le buone ragioni per invidiare e disprezzare gli artisti, visto che è a lei che tocca spostare le TV a colori dentro cui si esibiscono loro. D’altra parte, sono quegli stessi artisti che raccontano questi sentimenti, giustificati, di invidia e disprezzo della working class, mentre loro sono impegnati a installare forni a microonde. Hanno tutti ragione, intanto i soldi li ha fatti soprattutto MTV.
La settimana scorsa ero a Bucarest a una conferenza di accademici che si occupano di media a presentare un libro su precarietà e povertà nei film europei, tema che solleva molto interesse. Da quando faccio parte del progetto di dottorato con cui abbiamo curato il libro e faccio ricerca sull’autorappresentazione di artisti e intellettuali precari, ho ricevuto spesso obiezioni come “ma che ne sanno i registi della precarietà” oppure “ma gli accademici sono comunque dei privilegiati, cosa c’entra il tuo lavoro con la povertà?”. Questa volta, dopo tre anni dall’inizio del mio dottorato e dopo due anni di pandemia, le domande sul libro dopo la presentazione sono state “ma ci sono capitoli dedicati a indagare la precarietà nel campo della produzione?” O “vi occupate anche di precarietà accademica?”. I tempi stanno cambiando molto in fretta, evidentemente. Buone notizie per la mia ricerca, pessime per il mondo, non solo accademico.
Intanto con altri del mio panel ci spostavamo in Uber almeno quattro volte al giorno per andare dal campus a ristoranti, alberghi, bar, parchi, fino a delle terme zarrissime vicino all’aeroporto (costo del pacchetto deluxe in giorno festivo: 110 RON, ovvero circa 20 euro). Nessuno di noi si era mai spostato così spesso in taxi. Le corse non costavano mai più di 15 RON (circa 3 euro). Non ci sentivamo in colpa – perché avremmo dovuto? Siamo tutti precari, per i rimborsi dell’università c’è un tetto risicato, l’anno prossimo la conferenza sarà a Oslo e possiamo scordarci questa inattesa opulenza. Non abbiamo avuto bisogno di inventarci nessun pretesto di “far girare l’economia romena”, anche se abbiamo osservato con un certo stupore che anche in molti ristoranti del centro non c’era il menù in inglese. La sera della festa di chiusura c'era un dj set che sarebbe generoso definire amatoriale, ma che era evidentemente il meglio che la conferenza si potesse permettere. Tra Dragostea e Maracaibo è partita Money for nothing e abbiamo ballato tutti.
– Elisa Cuter
Sono sempre vissuta nella fobia e nell’angoscia etica di vivere al di sopra delle mie possibilità perché i fratelli di mia madre si erano orrendamente indebitati per vivere al di sopra delle loro possibilità e mia madre sopperiva a questa loro discrasia percettiva sobbarcandosi da sola le spese per nostra nonna e scaricando su me e mio fratello tutta la sua frustrazione. Mia madre è una convinta di non tenere ai soldi e non fa che parlare di soldi. I figli dei miei zii indebitati per vivere al di sopra delle proprie possibilità si sono tutti sposati. Ogni volta che si sposavano mia madre si lamentava con me e mio fratello del costo complessivo del matrimonio e del fatto di dover elargire un milione di lire/500 euro a dei nipoti che nemmeno la chiamavano per farle gli auguri di compleanno. Ogni volta che un mio cugino stava per sposarsi mi sentivo depredata di un milione di lire/500 euro perché sapevo che non avrei mai ricevuto quei soldi indietro in una dinamica di scambio parentale, sia perché i miei zii non mi avrebbero mai regalato un milione di lire/ 500 euro in caso di matrimonio, sia perché non mi sarei mai sposata.
Mia madre che vive eticamente all’interno delle sue possibilità si compra i vestiti solo ai saldi, guarda le offerte del supermercato, prende molti contorni al ristorante e si abbuffa di pane perché è gratis.
Solo di recente, quando ho pensato seriamente all’ipotesi di comprarmi casa, mi sono resa conto di aver tratto gli insegnamenti peggiori da tutta questa faccenda. Pensavo che vivere al di sopra delle proprie possibilità significasse spendere cifre spropositate per arredarsi un bagno con le piastrelle rosa dai bordini dorati e poi non avere i soldi per pagare la rata del mutuo. Ora che per la prima volta nella mia vita sono nelle condizioni di avere l’anticipo per una casa e la possibilità di trastullarmi con discorsi su tassi fissi o variabili, ho capito che vivere al di sopra delle proprie possibilità può significare non solo non comprarsi casa e non arredare un bagno, ma non parlare mai più di case e di mutuo. Sbroccare, alzarsi dal tavolo quando qualcuno lo fa. Non avere niente da lasciare a nessuno. Far diventare casa la c-word. Buttare i soldi al cesso. Qualsiasi cesso va bene. Ma non il cesso di c-word tua perché non vuoi avercela una c-word tua.
– Veronica Raimo
Qualche settimana fa ho guardato un’intervista a Baby Gang, il trapper. Baby Gang è un poco più che ventenne di origini nordafricane. Ha trascorso la pubertà e l’adolescenza tra vita di strada, percorsi in case di accoglienza e carcere. È intelligente, scaltro, determinato. È dotato di un’attitudine politica, nel senso che quando parla, sa che c'è una comunità che lo ascolta e perciò modella il proprio discorso in base a una visione del mondo e della storia. Grazie a Telegram riesce a spostare centinaia di persone per girare un video o per dare appuntamento per un flashmob. In un’altra epoca avrebbe potuto diventare uno Spartaco che guida gli schiavi verso la libertà e l’emancipazione. Nel tardo capitalismo, invece, il suo discorso è più o meno questo: in Italia nessuno muore di fame, quello che mi ha sempre spinto a rubare e a delinquere è il fatto che mi sentivo umiliato perché non mi potevo permettere le scarpe di marca che avevano gli altri. Oggi grazie alla musica Baby Gang si è affrancato e può comprarsi quelle scarpe che ha sempre desiderato. Il suo giovane pubblico lumpenproletario, che vive nelle periferie delle grandi città o nella provincia impoverita e depressa dalla pandemia, si riconosce in questa umiliazione e in un percorso di emancipazione che non passa per il diritto alla scuola, al lavoro e alla casa, ma per l’acquisto di un merdosissimo paio di scarpe, pensate in USA e assemblate in qualche fabbrica tugurio del sud est asiatico. La critica e gli intellettuali più “sensibili” sono anche quelli che scontano il retaggio di un marxismo inconsapevole e irriflesso, perciò si astengono da qualsivoglia giudizio critico e per timore di non offendere i lumpenproletari, si limitano a osservare e si pongono in rispettoso ascolto dell’urlo lumpenproletario. Intanto la trap e la drill parlano al lumpenproletariato Gen Z e costruiscono la propria selvaggia egemonia culturale intorno al discorso sul diritto alle scarpe di marca. Non ho idea di dove ci porterà tutto questo.
– Ivan Carozzi
Quando uscì Class nel 2014, il Corriere disse al mio ufficio stampa che il tema delle classi non gli interessava. Parlavo del prezzo dei villini al Mandrione. Non ho mai fatto altro.
Una mia amica ha perso il lavoro e ora le passo poche interviste da sbobinare pagandole 50 euro l’ora. Come è nato questo prezzo? Dai molti soldi che ho. Un candidato a questo lavoro da gig economy mi ha scritto che è un prezzo assurdo e fuori mercato. Io temevo fosse poco. Come si stabilisce il prezzo di un lavoro così occasionale?
Io quando non guadagnavo più di novecento euro al mese avevo una casa dove non pagavo l’affitto. Casa di anziani morti. “Che bello sono morti ora ci puoi andare tu”.
Ho aspettato dieci anni di finta gavetta e poi ho iniziato di colpo a guadagnare tantissimo, molto più di quanto avessi mai immaginato di poter guadagnare. Sono passato da novecento a tremila euro al mese veramente nel giro di due anni. È bastato sopravvivere. “Ah sei ancora qui? Allora eccoti il resto dei soldi. Stavamo aspettando che se ne andassero i poveri”.
Noi che sopravviviamo (tutti borghesi tranne qualche caso ogni tanto) sopravviviamo perché sappiamo che non finiremo per strada. Che ce la facciamo per puro caso noi invece che i nostri cugini o compagni di scuola è casuale, e non cambia niente. La gara non è tra noi, ma con voi, che non potete vincerla. E se la vincete è solo perché capite intuite che algoritmi usare, algoritmi che sono stabiliti da noi che comandiamo.
Perciò per me la questione del merito non è mai esistita. Le condizioni materiali sono tutto, non c’è altro. Bossa nova suonata su una spiaggia privata. Una bella donna elegante che sposa Onassis.
Claudio Giunta nel suo bel libro su Labranca lo loda perché Labranca non aveva l’atteggiamento moralista del borghese che giudica il povero che si compra gli status symbol invece di vivere modestamente e razionalmente.
Che ridere le persone che si identificano in qualche role model di Rai Tre, La7 o Internazionale. Che ridere l’idea che un borghese possa mai pensare di essersi guadagnato qualcosa.
Siamo una classe fortissimi.
– Francesco Pacifico
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Essere e avere
di Sara Marzullo
Qualche sera fa sono uscita a cena con una coppia di amici; a un certo punto la conversazione si è fermata sulla difficoltà che provavamo nell’avere a che fare con persone particolarmente ciniche o amare, persone a cui volevamo bene, ma il cui atteggiamento rischiava ogni volta di pervadere l’ambiente lasciando posto per poco altro. A., che di lavoro fa la psicologa, si domandava quando queste persone fossero state umiliate; l'umiliazione, diceva, tocca qualcosa di molto profondo, può spingere a un desiderio di rivalsa perenne. Ci eravamo arrivati parlando di soldi e sentivamo che i due temi erano intrecciati in modo indissolubile: l’umiliazione era l’amico che a scuola ti fa notare che le tue scarpe sono repliche tarocche; la compagnia del liceo di città che ti fa sentire un campagnolo per il modo in cui ti vesti o in cui ti comporti; il ragazzo che frequenti per un po’ che ti dice che lui e i suoi amici riconoscono subito chi imita le maniere raffinate e casual con cui loro sono stati educati e sai che si riferisce a te; il collega più grande che commenta che è proprio vero che non vieni dalla borghesia per una domanda che gli hai fatto o gli amici della tua ragazza per cui la casa al mare e quella in montagna arrivano insieme alla famiglia e forse le sopravvivono anche (le famiglie traballano, le case no). L'umiliazione è farti notare che non sai come funzionano le cose, farti percepire la profonda e inconciliabile estraneità a un contesto.
In Le cose che abbiamo - Essere e avere alla fine del capitalismo (Luiss Press, 2022 - trad. Chiara Veltri) Eula Biss racconta che la sua vita è cambiata quando ha comprato una lavatrice; mentre prima passava i pomeriggi a lavare i suoi vestiti nelle lavanderie a gettoni, adesso aveva il privilegio di poter convertire il tempo speso a guardare i maglioni girare nell’oblò con tempo per scrivere o a tentare di farlo. “Non avere soldi consuma molto tempo… Prendo in considerazione la possibilità che sia stata la lavatrice, più che la casa, a cambiare la mia vita. Telefono a mia sorella e le dico che in realtà quello che ho fatto è stato comprare un contenitore per una lavatrice da 400.000 dollari”.
Nel corso del libro, che è scritto come collezione di microsaggi, Biss si chiede cosa intendiamo quando usiamo alcune parole: lavoro, capitalismo, classe operaia, classe media, precariato, da cosa derivino e a cosa si riferiscano materialmente. Alcuni oggetti, come la lavatrice o la casa da 400 mila dollari, rientrano in quella categoria che Maggie Nelson chiama con l’espressione astrazione vera, “qualcosa di davvero astratto o qualcosa che in un certo senso è astratto ma anche reale o letterale o vero” – in questo caso sono correlativi oggettivi della sicurezza e del comfort della classe media, dell’insularità che deriva dall’appartenenza a un lifestyle, rispetto al quale Biss si era sentita estranea per gran parte della vita adulta (a differenza di autori come Annie Ernaux, Biss non parla esattamente del passaggio di classe).
Nelle note finali aggiunge di essere consapevole che l’espressione classe media è usata “in modo talmente diffuso e grossolano che il suo significato preciso di solito è poco chiaro: potrebbe riferirsi a uno stile di vita, a un sistema di valori, a una mentalità o a una categoria economica”. Nel 2018 l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti aveva decretato che con classe media si intendevano le famiglie con un reddito compreso tra i 45 mila e i 139 mila dollari, ma poi ha cambiato i valori, ampliandoli prima a sotto i 250 e infine ai 450 mila dollari. Questi valori dicono poco, come nota l’autrice, perché “i nostri ricchi lavorano o almeno fingono di tenersi occupati… è emersa una nuova classe di persone che non lavora per i soldi… [ma] per un senso di gratificazione… lo stipendio è marginale, anche se funge, osserva Galbraith [ne La classe opulenta] da indice di prestigio”; dovremmo piuttosto considerare i patrimoni netti, la ricchezza accumulata, le eredità e infine i debiti. Secondo i calcoli del governo, Eula Biss e suo marito, due docenti universitari, appartengono al 25 per cento col reddito più alto dell’area di Chicago, qualcosa che risulta lontano dall’esperienza da cui entrambi provengono e anche da quella quotidiana. Il processo che li porta a decidere di poter comprare una casa e, poi, il tipo di richiesta di stabilità economica che segue la stipula di un mutuo trentennale è al centro di questo libro: “Avevamo dei soldi,” ammette il marito “ma li abbiamo spesi per questa casa. Ora viviamo nei nostri soldi”. Il grande costoso contenitore della lavatrice è stato pagato con una promessa di pagamento, un rosso che, nel corso del tempo, si stingerà.
Income’s Outcome è un’opera di Danica Phelps, in cui l’artista ha disegnato dove andavano a finire i suoi soldi, “le sue mani che aprivano le bollette, le scarpe ai suoi piedi… il figlio che spingeva un carrello al supermercato”. Oltre agli oggetti Phelps ha segnato anche l’importo speso e, ogni volta che vendeva uno di questi disegni, anche quanto aveva guadagnato e cosa aveva fatto con quei soldi. L’importo è segnato con delle strisce di vari colori: i soldi spesi erano in rosso, in verde quelli guadagnati, in grigio il credito, zona intermedia. Il prezzo del disegno dipendeva da quanto il disegno le piaceva – “come ha osservato una galleria, è stata la sua scelta estetica finale” – e il valore che l’oggetto aveva assunto per lei – “se avevo solo 20 dollari e ne spendevo 4 per un piatto di zuppa, il disegno avrebbe avuto più valore [per me]”, come spiega in un breve video che ho trovato online. Nello stesso video spiega che ha sempre avuto problemi con i soldi e che questo progetto era un modo per tenerne traccia, che le “dava alcuni vantaggi come tentare di non rimanere senza soldi e anche fare un’esperienza più prolungata di dove li spendevo… era come generare qualcosa che avesse valore, disegnandolo”.
Quando nel 2012 le hanno pignorato la casa, Phelps ha dipinto 350 mila strisce di gouache rossa, in quel caso disegnarle è stato “come lasciar andare la casa, ogni singolo penny del suo valore”.
Qualche mese fa ho aperto un conto corrente, perché era la cosa adulta da fare. B., l’addetta che se ne è occupata in banca, sosteneva che una persona giovane e dinamica come me avrebbe dovuto aprire un fondo risparmi, ma poi aveva evaso alle mie domande su cosa quel fondo di risparmi avrebbe fatto ai miei soldi, preferendo utilizzare ogni intuizione avesse avuto sulla mia persona per spingermi ad accettare le sue proposte. Non potevo tenere i miei soldi stagnanti sul conto, insisteva, non esisteva proprio, ma quello che mi proponeva non erano investimenti (anche gli interessi non esistevano proprio più), solo spostare i soldi da qui a là e pagare assicurazioni sanitarie o qualcosa del genere. Non ho fatto niente di tutto quello che mi ha proposto, forse solo per puntiglio, per rispondere alla sua manipolazione sfacciata, o perché sono ancorata a un mondo passato e non so come funzionano i soldi. La cosa che ho fatto alla fine è far in modo di avere un conto che uso per le spese di tutti i giorni e uno per le spese periodiche, come l’affitto, le tasse o le visite. Come Danica Phelps, adesso so esattamente quanto costa il mio stile di vita e quanto continuare a esistere – anche se la casa che occupo è parte del mio stile di vita.
L’edizione originale di Le cose che abbiamo ha in copertina una delle opere di Income’s Outcome: “il valore dell’arte di Danica Phelps, per come la vede lei, è iscritto nell’arte stessa: arte che illustra quello che viene fatto con i soldi spesi per l’arte. Il suo lavoro è sia una critica nei confronti del mercato dell’arte, sia una forma di tacito consenso nei suoi confronti”. L’altra parola cardine di questo libro, infatti, è arte: cos'è l’arte, cos’è il lavoro, in che rapporto stanno in una società capitalista? Per tutta la sua vita adulta, Biss ha sempre avuto un lavoro che le permettesse di rendere la sua arte – la scrittura – uno spazio libero, di gioco, in cui sperimentare con gli interrogativi più complessi. Questo libro è frutto del tempo sottratto al lavoro (di insegnante), ma è a suo modo un lavoro – il primo le serve per permettere l’esistenza del secondo, per permetterle la sicurezza della vita che conduce dentro la casa che ha acquistato.
Nel libro, un tassista le chiede se non pensa che sia sbagliato guadagnarsi da vivere insegnando qualcosa (scrittura) con cui i suoi studenti non si potranno permettere di guadagnare da vivere. “No”, risponde Biss, “il servizio che offro ai miei studenti è insegnare loro come trovare valore in una cosa che generalmente non viene considerata di valore”, ma sa che tanti dei suoi studenti fanno parte di quella “una nuova classe di persone che non lavora per i soldi, ma per un senso di gratificazione”, perché insegna in una costosa università di élite, che vuol dire anche che riceve un buono stipendio – la ricchezza deriva dall’insegnare ai ricchi.
“Non credo che pensi che quello che fai non abbia valore”, le dice la sorella. “Infatti non lo penso. Intendo solo che è economicamente privo di valore”. I soldi che Biss prende dalla scrittura sono imprevedibili, arrivano come entrata inattesa più che come stipendio; forse è per questo che i ricchi sottolineano sempre come dall’arte non ci guadagnino da vivere, che fanno la fame (ma poi non la fanno) come vanto e non come punto interrogativo – che è invece quello che porta Biss a scrivere questo libro. E forse per questo amano creare residenze per artisti, mi dico, per trasformare per tutti la gratificazione ottenuta dal lavoro in un lusso quantificabile, oggettivo e concreto, per equipararla ai privilegi che hanno a discapito degli altri. Visto che questo è un libro di definizioni, per residenza per artisti metto quella che usa Biss: “un luogo in cui gli artisti possono dedicarsi alla propria attività vivendo temporaneamente come i ricchi”, scrive. “In cambio della mia presenza a questa raccolta fondi otterrò un soggiorno di tre settimane in questo posto, dove scoprirò quanto poco tempo occorra per acquisire la mentalità di chi pensa che tutto gli sia dovuto”.
Anni fa sono stata ospite di un’amica in una residenza d’artisti, in una bellissima villa su un colle romano. Durante un aperitivo, mi ha confidato che “non aveva mai visto nessuno muoversi a suo agio come me in quelle stanze”. Lo diceva in senso positivo, ma quello che sottintendeva è che io non appartenevo a quella villa e mai lo avrei fatto; ci ripenso di tanto in tanto, all’orgoglio e all’umiliazione che ho sentito insieme, inscindibili – mi era stato fatto notare come non mi fossi neanche posta il problema di potermi sedermi a quella tavola. Ho provato la stessa sensazione quando D. mi ha detto che dopotutto c’erano insegnanti che scrivevano e che nessuno me lo avrebbe fatto pesare, potevo tranquillamente accettare la supplenza alle scuole medie che mi era stata offerta. In entrambi i casi C. e D. mi hanno portato all’attenzione qualcosa che non avevo notato, a cui non avevo pensato e che continua a ronzarmi in testa: è in quella frattura che possiamo provare l'umiliazione economica, il senso che non ci siamo resi conto di qualcosa di ridicolo, di come siamo ridicoli.
D. legava in modo inscindibile la mia fonte di reddito primaria al valore che davo a me stessa, invece di capire che era il lavoro meglio pagato e più gratificante che avessi mai fatto, anche senza che dovessi farne una “vocazione”, perché l’unica vocazione che ho è la scrittura, mia e degli altri, per la quale sono capace di modificare tutta la mia vita; lo so perché è quello che ho sempre fatto. Un paio di settimane fa dicevo a E. che adesso che ha un contratto a tempo indeterminato a scuola può concentrarsi sui suoi film; per noi la questione non era solo avere uno stipendio, ma la sicurezza, la libertà mentale che si ottiene quando smetti di pensare quanto ti basteranno i soldi e non metti una pressione economica insostenibile su qualcosa a cui tieni.
Dopo aver finito il libro, Biss ha lasciato il suo lavoro all’università; voleva confrontarsi con la parte difficile e terrorizzante della scrittura, che rendere un’attività solo libera (usa la parola play) le permetteva di non fare; ha superato i quarant’anni e si trova ora nella posizione di voler prendere decisioni sul suo futuro, investire sulla sua carriera. Ho pensato che se lo merita, ma anche che, come dice lei, gli investimenti “sono un’attività per ricchi”. Volere significa potere, insomma. Ho pensato, magari un giorno, come se il successo economico volesse dire qualcosa di preciso sulla mia arte. Questo pezzo mi darà meno di cento euro netti, ma posso solo scrivere dentro questo sistema e rispetto a questo sistema e contro questo sistema; le contraddizioni producono questo pezzo.
Ho dieci anni meno e non ho pubblicato nessun libro; per la mia carriera sarebbe importante rimediare il più presto possibile, altrimenti resterò in questo limbo per sempre – bisogna diventare scrittori riconosciuti per ottenere credito. In cambio, i miei tentativi di scrittura sembrano sempre troppo complicati o difficilmente vendibili rispetto al mercato editoriale. Nessuno mi parla mai di progressione del pensiero, di crescita artistica. La mia disaffezione (forse incompetenza, forse estraneità) rispetto al concetto di carriera è allo stesso tempo il problema della mia carriera e la sua fortuna.
A volte mi pare che tutte le persone che conosco stiano comprando casa o abbiano comprato casa e ora passino il tempo a lamentarsi di artigiani rispetto ai quali sviluppano tutti una specie di sindrome di Stoccolma. Questi artigiani non fanno mai il loro lavoro, mi spiegano, non lo fanno in tempo o lo fanno male, ma loro continuano a chiamarli tutti per nome – il signor Cesare, Roberto il tappezziere – come per propiziarseli, in attesa che li richiamino per fissare un appuntamento. A me comprare casa continua a sembrare una possibilità fuori dalla mia portata, un’altra di quelle condizioni in cui sento di non sapere come funzionano i contesti. L’altro giorno F. ha detto a me e a E. che dovevamo iniziare a investire in criptovalute e gli abbiamo risposto che eravamo troppo italiani e cattolici per investire soldi in soldi. Io piuttosto avrei comprato una casa; F mi ha risposto che ovviamente lui una casa l’aveva già. Ho realizzato che stavamo solo comparando la nostra ricchezza.
Per scrivere questo pezzo ho provato il più possibile a seguire le regole che la stessa Eula Biss si è data per il libro. Ho usato le interazioni con gli amici e ho provato a parlare di soldi nel modo più diretto e sincero possibile, ma al contrario suo ho accettato che il disagio poteva frenarmi e ho cambiato i nomi. Se qualcuno si riconosce, spero che non si risenta – le discussioni che facciamo sui soldi sono sempre cortesi ed educate e come Biss volevo provare a rifiutare queste norme di conversazione:
1) Non parlarne.
2) Se ne parli, non essere specifico.
3) Minimizza quello che hai.
4) Enfatizza il fatto di averli guadagnati
Ci teniamo a giustificare il sistema di regole in cui siamo, per giustificare che quello che guadagniamo ci spetta, che abbiamo faticato e questa è la conversione di quella fatica, ma, come scrive Mariana Mazzucato, “i redditi sono giustificati dalla produzione di qualcosa che è di valore. Ma come misuriamo il valore? In base al fatto che produce reddito”.
La quinta regola che Biss rifiuta è:
5) Non dimenticare mai che il lavoro è la storia che ci raccontiamo sui soldi.