L’altro giorno mi sono sentita molto boomer per aver commentato sotto a un post di Facebook di una persona più giovane di me che conosco e che stimo. Lamentava il carico eccessivo di un esame: tutte le poesie di un autore e due libri di commento critico. Ho letto questo comprensibile sfogo tornando una sera a casa ubriaca durante la settimana, presagendo l’hangover che mi avrebbe attanagliato il giorno dopo, in cui dovevo lavorare. Ma invece di provare empatia per chi scriveva ho provato nostalgia per i miei lunghi anni di triennale. Non era assolutamente tutto rosa e fiori: persi quasi due semestri presentandomi agli esami preparata ma scappando subito dopo l’appello per l’incapacità di gestire l’ansia da prestazione. Eppure quest’ansia riguardava la mia insicurezza, la mia autopercezione come essere umano in crescita, i miei drammi erano di natura soprattutto sentimentale e relazionale. La precarietà sistemica la presagivo, ma non era il punto, non ancora. In sostanza: i miei mi mantenevano. I miei mi mantenevano agli studi e quando ho iniziato a lavorare non mi stavo guadagnando da vivere ma stavo dimostrando qualcosa a loro e a me. In quegli anni ho potuto dare una sfilza di esami monografici da cinque crediti, ho potuto andare in terapia, ho potuto organizzare grandi feste, passare notti in bianco a piangere per storie d’amore infelici. Dovrebbe essere così, ma non può più essere così, forse, per chi ha vent’anni oggi, per quei motivi di cui parlavano le normaliste che cita Sofia in questo pezzo. Il capitale ha collegato nel suo circolo vizioso problemi personali e problemi sistemici. Per sbrogliare la matassa ci servirebbe il tempo di distinguerli, invece. Dovremmo avere il tempo per crescere, per preparare esami monografici, per goderci l’università con calma. “Reiche Eltern für alle” (genitori ricchi per tutti) è uno slogan che si legge in manifestazione qua in Germania. O quello, o almeno le borse di studio.
– Elisa Cuter
Ansie
di Sofia Torre
Mi sono presa due giorni di stacco dal lavoro per respirare. Forse meno, visto che sto scrivendo questo pezzo prima che il secondo giorno sia anche solo arrivato a metà, e forse non è davvero servito a respirare, dal momento che ieri, quando alzavo gli occhi dal romanzo che mi trascino dietro ormai da un mese e vedevo il computer, sentivo dodici generazioni di mal di schiena sulle spalle.
Sto facendo “un lavoro che amo”, e lo scrivo senza ironia. Amo profondamente il mio lavoro, scrivere, leggere e fare ricerca, e ancora non riesco a credere che mi paghino per questo. Amo le biblioteche, i tavoli con su scritto a matita “a Sara piace il cazzo”; “Sbirri di merda”; “Non si scrive sui tavoli porcod**”. Amo mettermi le ciabatte per incontrare professori ed esperti di cose complicate a vario titolo, amo mettere le note a margine, giustificare le affermazioni con piccole parentesi e doppi punti, amo il fatto di aver trovato degli spiriti affini in una studiosa di barocco fiorentino e in una di elegia greca. Amo il fatto di sentire che cercare di avere idee brillanti e molto metodo di studio possa pagare esattamente quanto fare il pane o riparare un tubo.
Ma amare basta per raggiungere la serenità?
Come tutti i nevrotici, vivo di piccole contraddizioni: ho il bagno estremamente pulito e i cassetti dell’armadio che sembrano la conseguenza di un’apocalisse nucleare; sono una persona socievole ma sono una fan dell’abitare in periferia, “a sei chilometri di curve dalla vita”; scrivo di femminismo e questioni di genere ma il grosso delle situazioni sentimentali (passate, sai mai che qualcuno legga quello che scrivo) in cui mi sono infilata avevano come massima attrattiva il fatto di farmi sentire svilita e usata. Allo stesso modo, amo follemente il mio lavoro ma lo sto vivendo malissimo. E, come sempre, ho questa paura nevrotica e molto millennial di iniziare a rilassarmi e a godermela appena in tempo per la fine. Una specie di FOMO al contrario, quelle cose da primo mondo, come la quinoa e i fusilli di lenticchie venduti sfusi, per cui se ti tirano una testata in faccia hanno quasi certamente diritto a un applauso.
Cosa ne sarà di me fra circa un anno e mezzo, una volta finito il mio dottorato? Forse assolutamente niente. Forse troverò un assegno di ricerca da qualche parte, ma non è assolutamente detto. “Fare un buon lavoro aiuta ma non basta assolutamente per restare nell’ambiente” è la frase che mi sono sentita ripetere in assoluto più spesso in questo anno e mezzo, a cui ho risposto facendo spallucce con quell’aria finto cool che cerchiamo di assumere noi Ansiosi All’Ennesima Potenza quando qualcuno ci conferma il nostro terrore principale: che non abbiamo la situazione sotto controllo. Già, tenere le redini del proprio futuro lavorativo, in questo campo, è dura, ed è l’unica cosa su cui tutti concordano, a prescindere dalla provenienza, dall’affiliazione e dai gusti in fatto di psicoterapia e film. Bisogna semplicemente accettarlo, che va così, e bisogna farlo cercando di vivere il momento rendendo al massimo e senza lamentarsi troppo. Il grosso del tempo mi illudo di riuscirci: adotto mini-strategie passivo aggressive, come spuntare le voci dalla lista delle cose da fare con una penna di un colore allegro, e mangio molta frutta, perché pare faccia bene all’umore e alla concentrazione. Faccio dieci minuti di yoga al giorno. A volte (ma mai quando ho una consegna) medito. Eppure, l’ansia è sempre lì, pronta a far capolino quando cerco di andare a letto, quando rileggo le cose che scrivo, quando apro la bocca per cercare di pronunciare una frase intelligente e dimostrare che non mi stanno pagando a vuoto. Mi domando se il problema non sia io.
Che non è possibile tenere la situazione sotto controllo è così vero che in una sfida di probabilità fra uno squalo vestito da sera che balla il valzer con una donnola in Piazza Maggiore e la plausibilità della propria carriera accademica sotto controllo, lo squalo ballerino non è poi così remoto. Ma, in fondo, non è così per tutte le professioni, da quando il mercato del lavoro è la sagra del precariato? Non ero forse precaria uguale in tutti i miei precedenti lavori? Però me ne andavo al lavoro coi capelli bagnati e il solo desiderio di timbrare e uscire prima, andassero tutti al diavolo. Cos’è cambiato?
Appunto, che io questo lavoro lo amo e che sono disposta a non dormire per farlo. A essere precaria fino a quarantacinque anni (se va bene). A mandare giù rospi. A preoccuparmi di non lasciare refusi (SPERO CHE TU STIA LEGGENDO, FRANCESCO PACIFICO). A comprarmi una giacca bianca e a indossarla con 40 gradi, a Milano, sull’asfalto, per non fare brutta figura ai convegni. Persino a fingere di non essere in ansia.
Mi rendo conto, però, di quanto tutta questa buona volontà nasconda una profonda disillusione su un sistema che, in fondo, non conosco nemmeno così bene. Qualche mese fa (o forse era l’anno scorso? Non mi ricordo nemmeno più) ho letto la risposta di Claudio Giunta sul Post al discorso contro il neoliberismo in università di tre ragazze laureate di fresco alla Normale di Pisa. Giunta criticava la giovane età e l’esperienza troppo acerba delle tre studentesse e citava il suo poeta preferito, Philip Larkin (che sfortunatamente è anche uno dei miei):
Larkin era più o meno convinto che la civiltà fosse il bene e la natura fosse il male, perciò rispose: «The nearer you are to being born, the worse you are» (“Più sei vicino alla nascita, peggiore sei”). Ecco, io non sottovaluto affatto le opinioni di un ventenne sulla sua esperienza universitaria: chi se non lui dovrebbe parlarne? Ma sull’università in generale (scopi, organizzazione, funzionamento) non credo che il ventenne dica, in quanto ventenne, una verità che non merita neppure di essere sottoposta a verifica e discussione: invece mi pare che i miei amici e colleghi che hanno reagito con commozione a quel video lo pensino («Ministre subito», ho letto in un tweet di un giornalista peraltro intelligente: che è una reazione puerile).
Una cosa che, “puerilmente”, lo so, mi spaventa è il possibile parere di accademici come Giunta rispetto alle mie ansie. Mi rendo conto di essere al principio, “troppo vicino alla nascita” di una carriera perché il mio parere possa avere importanza. Capisco che la sensazione di essere una stupida, ansiosa, nevrotica, inadatta a stare al mondo, non dovrebbe avere un peso. Però ce l’ha. Almeno, ce l’ha per me. So che a un certo punto la mia metà romagnola prevarrà e farò quello che devo fare-saggi, tesi, discussioni- e il resto se ne andrà “a pugnatt”, ma come rimanere a galla nel frattempo?
Proviamo proprio con una poesia di Philip Larkin, che amo molto, High Windows:
When I see a couple of kids
And guess he’s fucking her and she’s
Taking pills or wearing a diaphragm,
I know this is paradise
Everyone old has dreamed of all their lives
Bonds and gestures pushed to one side
Like an outdated combine harvester,
And everyone young going down the long slide
To happiness, endlessly. I wonder if
Anyone looked at me, forty years back,
And thought, That’ll be the life;
No God any more, or sweating in the dark
About hell and that, or having to hide
What you think of the priest. He
And his lot will all go down the long slide
Like free bloody birds. And immediately
Rather than words comes the thought of high windows:
The sun-comprehending glass,
And beyond it, the deep blue air, that shows
Nothing, and is nowhere, and is endless.