Ansie – Gua Sha n. 24
Uno squalo vestito da sera balla il valzer
L’altro giorno mi sono sentita molto boomer per aver commentato sotto a un post di Facebook di una persona più giovane di me che conosco e che stimo. Lamentava il carico eccessivo di un esame: tutte le poesie di un autore e due libri di commento critico. Ho letto questo comprensibile sfogo tornando una sera a casa ubriaca durante la settimana, presagendo l’hangover che mi avrebbe attanagliato il giorno dopo, in cui dovevo lavorare. Ma invece di provare empatia per chi scriveva ho provato nostalgia per i miei lunghi anni di triennale. Non era assolutamente tutto rosa e fiori: persi quasi due semestri presentandomi agli esami preparata ma scappando subito dopo l’appello per l’incapacità di gestire l’ansia da prestazione. Eppure quest’ansia riguardava la mia insicurezza, la mia autopercezione come essere umano in crescita, i miei drammi erano di natura soprattutto sentimentale e relazionale. La precarietà sistemica la presagivo, ma non era il punto, non ancora. In sostanza: i miei mi mantenevano. I miei mi mantenevano agli studi e quando ho iniziato a lavorare non mi stavo guadagnando da vivere ma stavo dimostrando qualcosa a loro e a me. In quegli anni ho potuto dare una sfilza di esami monografici da cinque crediti, ho potuto andare in terapia, ho potuto organizzare grandi feste, passare notti in bianco a piangere per storie d’amore infelici. Dovrebbe essere così, ma non può più essere così, forse, per chi ha vent’anni oggi, per quei motivi di cui parlavano le normaliste che cita Sofia in questo pezzo. Il capitale ha collegato nel suo circolo vizioso problemi personali e problemi sistemici. Per sbrogliare la matassa ci servirebbe il tempo di distinguerli, invece. Dovremmo avere il tempo per crescere, per preparare esami monografici, per goderci l’università con calma. “Reiche Eltern für alle” (genitori ricchi per tutti) è uno slogan che si legge in manifestazione qua in Germania. O quello, o almeno le borse di studio.
– Elisa Cuter
Ansie
di Sofia Torre
Mi sono presa due giorni di stacco dal lavoro per respirare. Forse meno, visto che sto scrivendo questo pezzo prima che il secondo giorno sia anche solo arrivato a metà, e forse non è davvero servito a respirare, dal momento che ieri, quando alzavo gli occhi dal romanzo che mi trascino dietro ormai da un mese e vedevo il computer, sentivo dodici generazioni di mal di schiena sulle spalle.
Sto facendo “un lavoro che amo”, e lo scrivo senza ironia. Amo profondamente il mio lavoro, scrivere, leggere e fare ricerca, e ancora non riesco a credere che mi paghino per questo. Amo le biblioteche, i tavoli con su scritto a matita “a Sara piace il cazzo”; “Sbirri di merda”; “Non si scrive sui tavoli porcod**”. Amo mettermi le ciabatte per incontrare professori ed esperti di cose complicate a vario titolo, amo mettere le note a margine, giustificare le affermazioni con piccole parentesi e doppi punti, amo il fatto di aver trovato degli spiriti affini in una studiosa di barocco fiorentino e in una di elegia greca. Amo il fatto di sentire che cercare di avere idee brillanti e molto metodo di studio possa pagare esattamente quanto fare il pane o riparare un tubo.
Ma amare basta per raggiungere la serenità?