“Alla fine prevalgono gli automatismi innescati dalla mia miserabile coscienza di proprietario dell’oggetto” – questa frase nel pezzo di Ivan Carozzi mi ha fatto molto ridere e l’odissea che Carozzi sta per raccontare è solo una delle ragioni. In questi mesi sto traslocando e mi sono resa conto che a trent’anni i miei traslochi non sono diventati più impegnativi o complessi rispetto a quelli di dieci anni fa. Non posseggo davvero nulla di valore: né un costoso contenitore per la lavatrice, come Eula Biss; né una macchina; né opere d’arte o qualsiasi cosa costituisca quello che comunemente definiremmo un bene, una proprietà, un patrimonio. Non solo non li posseggo, ma la prospettiva di farlo un giorno mi pare vaga e avvincente come un giallo metafisico. Nonostante i miei tentativi di smettere di comprare oggetti che non mi sopravviveranno e i timidi acquisti di complementi di arredamento non prodotti su larga scala (un comodino trovato su Facebook Marketplace), non c’è molto che lascerò dietro di me; tuttavia la questione dell’assenza di beni di valore non mi preoccupa particolarmente, immagino che si concluderà in qualche modo, come il giallo metafisico. La frase di Ivan mi ha fatto ridere perché mentre leggevo ho pensato che avrei vissuto quella stessa avventura in uno stato di assoluta ansia e ostinazione, spinta da una meschinità a tratti ridicola. Il trasloco, insieme al fatto che sto scrivendo questa intro da casa dei miei genitori, mi ricorda che l’unica cosa che posseggo veramente sono i miei libri, verso cui provo un trasporto inspiegabile ma anche poco romantico: qui in Toscana li rimetto in ordine, provando a immaginare se riuscirò mai a unirli a quelli che dovrò impacchettare al mio ritorno a Torino, perché prima di tutto sono miei, vaffanculo, mi appartengono. La specifica sfumatura di meschinità che contraddistingue il mio rapporto con la mia biblioteca è ancora più ridicola, perché non posseggo volumi di intrinseco valore o insostituibili – gran parte dei miei libri preferiti li ho letti in biblioteca e non li ho mai neanche ricomprati. È proprio la loro massa, la loro imponenza che mi rassicura, mi pare una ipostasi della mia vita, il segno materiale della mia esistenza, una creatura che come la nave Argo può essere rimpiazzata nelle sue componenti ma che mantiene sempre lo stesso nome, però non mi sogno neanche di rimpiazzarle. Magari dovrei provare a leggere Tolgo la mia biblioteca dalle casse di Walter Benjamin in preda a questa angoscia ostinata, sostituire al sentimento questa rabbia tignosa da fine del mondo, che tanto trovo ridicola e tanto mi piace. Intanto, mi sono trovata a vivere le avventure di Ivan facendo il tifo per lui, con un coinvolgimento da storia d’amore: loro non possono capire, ma io sì.
– Sara Marzullo
Delusione
di Ivan Carozzi
Un giorno a Bologna sono entrato nella libreria Modo Infoshop e ho notato un libricino della collana Fotocopie. Si tratta di libricini molto attraenti, tutti bianchi, prodotti dalla libreria Modo Infoshop, con il logo della libreria a centro copertina, spillati, di poche pagine e di piccolo formato, che ricordano un po’ i vecchi Millelire di Stampa Alternativa. Il prezzo è di tre euro. Sono tutti raccolti in un espositore sistemato vicino alla cassa. Dopo aver sfogliato qualche Fotocopia, ho tirato fuori gli spiccioli che avevo in tasca e ho acquistato Come e perché consigliai a Eco e sodali di lavare i piatti. Il titolo mi ha incuriosito. L’autore del libro è Luciano Nanni, un tempo docente di estetica al DAMS. Il libro ricostruisce un vecchio dibattito tra professori della facoltà del DAMS. Lo compro, tutto contento, dopodiché il libro inizia una sua avventura. Lo dimentico a Bologna, a casa di mio fratello, e quando me ne accorgo, in treno, mi sento di colpo svuotato. Qualche settimana dopo torno a Bologna per poche ore e riesco a recuperarlo. Il libro di Nanni è di nuovo con me. «A breve me lo leggo», penso. Devo solo arrivare in fondo a un altro paio di libri e a quel punto so che si aprirà una pausa tra un libro e l’altro, che di solito riempio mediante la lettura di libri brevissimi. Il libro infine giunge a casa mia, a Milano, e si posa sopra una pila di altri libri che ho cumulato su un lato del divano. Ci resta almeno un paio di settimane. Poi un giorno, finalmente, arriva il suo turno. Ho appena concluso Un’odissea di Daniel Mendelsohn, che mi era stato regalato un paio di anni fa, e ora ritengo sia arrivato il momento di consumare questo brevissimo Come e perché consigliai a Eco e sodali di lavare i piatti.
Così un pomeriggio esco di casa e lo porto con me, piegato nella tasca dei pantaloni. Ho intenzione di leggerlo in metropolitana e durante qualche pausa. A metà pomeriggio mi fermo in un bar per una birra e inizio a leggere. M’inoltro lungo le prime due, tre pagine. A causa dei sorsi di birra mandati giù a stomaco vuoto, le righe e i capoversi si succedono flessuosamente, come basse onde sospinte indietro dalla risacca, a volte infatti devo tornare indietro per afferrare meglio il senso di quello che ho letto, ma la cosa non mi dà nessun fastidio, anzi, le parole si concatenano piacevolmente l’una all’altra grazie a un legame fatto di attrazione e simpatia. La lettura non lascia nessuna traccia. Tutto evapora. Vado a pagare alla cassa, esco dal bar, mi allontano, cammino per un paio di isolati e mi rendo conto di aver lasciato il libro sul tavolo del bar. A quel punto torno indietro, a fatica (tornare indietro per recuperare qualcosa che ho dimenticato è un’operazione che mi costa sempre un’enorme sofferenza e per qualche motivo mi scatena lo stesso sentimento di frustrazione e oppressione che si prova nei sogni, quando hai la sensazione di essere incastrato, stretto tra due pareti, bloccato, e magari vorresti muoverti, alzare una gamba, un dito, correre, ma non ci riesci, gli arti non rispondono, i muscoli sono paralizzati, e sei come sigillato e prigioniero nel tuo stesso corpo). Torno al bar. Il libro non c’è. Vado alla cassa. Il titolare dice di non averlo visto. Mi assale lo sconforto, non tanto per il libro in sé, ma per la vita difficile che il libro ha sofferto per causa mia da quando l’ho comprato un pomeriggio a Bologna. Mi sento un imbecille. All’improvviso un signore, seduto da solo a un tavolo, mi fa un cenno e indica un secondo tavolo, dall’altra parte del bar. A quel tavolo si trovano un ragazzo e una ragazza. Sono vestiti con una maglia a maniche corte nera, pantaloni neri e hanno le braccia coperte di tatuaggi. Il tratto dei disegni è volutamente incerto e scarabocchiato, naif. I tatuaggi raffigurano cose buffe e senza importanza: un cono con due palline di gelato, una banana sbucciata a metà, un triangolo di pizza, una faccina sgorbiata da cartone animato underground, un paio di ciliegie. Il libricino, lo vedo, è lì sul loro tavolo, fra un paio di bicchieri rossi di spritz e la ciotola con le noccioline. Mi avvicino. Sono pieno di gioia e soddisfazione per aver ritrovato il libro, sono grato al misterioso signore che ha seguito lo svolgersi della situazione e con un sorriso discreto e un gesto della mano mi ha indicato il libro, però sono anche indeciso, in imbarazzo, perché trovo un po’ volgare e privo di stile riappropriarmi di un libro, soltanto perché è mio, solo perché mi appartiene, perché l’ho pagato col mio denaro, i miei tre euro, quando invece mi appare di colpo più importante aver scoperto l’esistenza di qualcuno che come me ama i libri, ne nota e registra la presenza nello spazio, grazie a un sensore che io stesso possiedo, e così, magari, avvistando nel mirino un libro dimenticato su una superficie, rilevata l’emissione di calore, gli si avvicina, lo tocca, lo sfoglia, ne prende le pagine per gli angoli, leggiucchia la quarta di copertina, comincia a immaginare che cosa c’è dentro, se ne innamora e decide allora di impadronirsene e portarlo con sé, verso un altro tavolo, sceglie di sedersi e depositare l’oggetto sul piano del tavolo, fra due bicchieri di spritz e a mezza distanza tra il proprio corpo e il corpo dell’altra persona, mentre entrambi si sporgono sopra il tavolo, gettando col busto un’ombra sul libro, quindi, senza volerlo, liberando le energie stregonesche del libro e la sua inesplicabile capacità di rafforzare il campo magnetico che si estende tra due individui.
Sono davvero indeciso sul da farsi, ma alla fine prevalgono gli automatismi innescati dalla mia miserabile coscienza di proprietario dell’oggetto, quindi avanzo verso il tavolo, anche se con il proposito di rivolgermi con la giusta cortesia verso questo tizio e questa tizia, nella speranza di trovare in loro due complici, un’affinità elettiva, e scoprire che magari sanno perfettamente che cos’è la facoltà del DAMS di cui si parla nel libro, che sono interessati alla storia del DAMS e come me credono che il DAMS sia uno scrigno di vicende e figure avventurose, anche per la vertigine provocata dal fatto che i primi studenti del DAMS, con i loro capelli lunghi, le giacche di pelle, i jeans moderni a zampa di elefante e il loro discutere e ridiscutere su L’anti-Edipo di Gilles Deleuze e Felix Guattari e sul rizoma come immagine utila a rappresentare la vera natura del desiderio e della vita, si muovevano all’ombra di una complessa rete di porticati medievali e rinascimentali, costruiti secoli prima a Bologna, città che vanta il primato dell’università più antica dell’Occidente, essendo stata fondata mille anni fa, nel 1088. Così mi avvicino, ma il tizio e la tizia, in realtà, mi guardano gelidi e stizziti, come se li avessi interrotti, mi fanno capire con una frase corta e smozzicata che il libro è lì per caso, che lo hanno trovato sul tavolo, non lo hanno neppure aperto, è lì, come una cosa fredda e senza vita e di nessun interesse, perciò che non mi azzardi a pensare che lo hanno rubato, mica sono dei pezzenti, mica attentano alla proprietà, mica mettono le mani su ciò che non gli appartiene, piuttosto, con un’occhiata ispida e di morte mi lasciano capire che a loro dei libri non importa assolutamente nulla, a malapena sanno che cosa sono, manco hanno letto il titolo del libro sul tavolo, quindi posso tranquillamente tornare in possesso di quell’articolo privo di valore che si ostina a occupare spazio e a cercare attenzione, anzi, mi fanno capire che è meglio che mi rincammini lungo la retta da cui sono venuto, meglio che sparisca, io e la carta e le pagine, perché, francamente, ho rotto i coglioni e forse dovrei mettermi in testa che quel che a me interessa non interessa in pratica a nessuno.