**** e mezzo.
Nel suo breve, dolente ricordo di una scena musicale e culturale fondamentale del Belpaese, Orso Tosco lancia il suo ribaldo j’accuse contro le ipocrisie del sistema discografico. Punkbenaltrismo, la rivista rock filogovernativa, l’ha intervistato per appropriarsi delle sue idee con alcuni trucchi di sbobinatura ben noti a chi è dell’ambiente e sa come si sbaglia a bella posta il piazzamento delle virgolette – ma intendiamoci: questo è un libricino vero e della sinistra vera, quella di una volta. Se l’unica cosa eccepita da Camurriata, il foglio dandy-anarcoindividualista filogovernativo, è l’“ormai trito ricorso al memoir come segno di decadente filodraghismo postsindacalista disfattista”, chi scrive vuole invece umilmente sottolineare che nel giro di pochi mesi questa memorialistica ispirata e, sì, morale, ci sembrerà fantascienza. (Franco Amabile)
– Francesco Pacifico
Bellagioia
di Orso Tosco
Il grande fraintendimento con la musica è che la gente la vuole ascoltare. Anzi, ancora peggio, la gente ha la tendenza a volerla riascoltare, a proprio piacimento, con calma, magari mentre si sta facendo dell’altro, e a distanza di anni, di decenni perfino. Quando invece la musica – per capirlo basta darsi uno schiaffo in fronte – la musica vorrebbe soltanto accadere: accadere per poi subito scomparire.
Per fortuna, in mezzo a questo tripudio di schiavisti, imbalsamatori e collezionisti, è esistita una scena musicale che ha tentato di opporsi. Una scena musicale appartata e furiosa, identica a un vecchio pigiama che dopo molti anni costretto a digiunare in cantina riesca a dotarsi di una mirabile dentatura, file di canini e molari con cui sbranare interi centri abitati, moltissime lattughe, fascicoli, dadi e frantoi.
Tutto questo avvenne nel ponente ligure, con le sue palme e i suoi vecchi banditi, le sue seconde case e la sua luce preziosa; luce che invece di rimandare i suicidi, come si dice faccia il cielo di Roma, li schernisce e li ridimensiona, imponendo metodi lenti e facilmente equivocabili, come il bar o la floricoltura.
La scena musicale di cui andremo a raccontare è composta da gruppi e solisti di cui per forza di cose non avete mai sentito parlare, perché nessuno di loro ha mai e poi mai registrato alcunché e tantomeno annunciato un proprio concerto. Le loro esibizioni hanno sempre goduto di una natura parassitaria, si sono svolte esclusivamente sul finire delle sagre paesane più drogate, oppure al termine delle celebrazioni di matrimoni o assoluzioni giudiziarie ormai ampiamente sfuggiti di mano, quando nessuno dei festanti ha interesse a proibire alcunché e i legittimi proprietari degli strumenti, lasciati incustoditi, stanno vivendo i loro intensi quindici minuti di erotismo, oppure dormono, accovacciati sulle pietre come cani dal pelo poco uniforme.
Questa scena musicale, rifiutando di accettare la propria stessa esistenza, rifiutò anche di dotarsi di un nome, e proprio per questo motivo ne ebbe molti. Tra i tanti nomi e nomignoli vale la pena di citare quelli di A.C.Dabe, Bellagioia, Pacioccio Renegades e Rogor 2000.
Non avendo deliberatamente lasciato alcuna testimonianza delle musiche eseguite, per immaginarle non resta che affidarsi ai racconti, chiaramente disastrati, di chi si è imbattuto per puro caso in una delle loro esibizioni. Operazione non semplice, poiché il ponente ligure è caratterizzato da un’età media molto elevata che, a sua volta, imprime alla scena mondana caratteristiche piuttosto anomale: da un lato c’è una maggioranza di abitanti che uscendo la sera ama vestirsi e atteggiarsi come fossero calciatori in vacanza, e dunque ecco il tavolo prenotato in discoteca vista mare, ecco la bottiglia in fresco, ecco la Mini decappottabile. Oltre questo confine troviamo invece un’accozzaglia composta principalmente da uomini, tanto variopinta quanto disperata: tossici vestiti da velisti, idraulici appassionati di metal core e suprematismo bianco, satanisti timidi, picchiatori grassi e sudati con il mito di Jon Bon Jovi, punkabbestia con la pensione d’invalidità, uomini taciturni che il Pastis trasforma in cospirazionisti logorroici, giocatori d’azzardo con il divieto di entrare nel Casinò di Sanremo, cantautori dialettali e agenti della Digos vestiti come Piero Pelù. Le poche donne presenti devono per forza imparare in fretta a destreggiarsi nel mezzo di questi uomini soli e infoiati. Alcune sviluppano pose eccentriche e spiazzanti, oppure acquisiscono una capacità mimetica degna dei polpi più smaliziati, altre ancora decidono giustamente di bere e drogarsi più di tutti gli altri messi assieme, in modo da isolarsi alternando momenti di furia cinetica a collassi visivamente poco attraenti.
Nonostante questa disparità numerica schiacciante tra uomini e donne, o forse proprio per questo motivo, se mai ci fu un leader di questa atipica scena musicale, quel leader fu proprio una donna. Il suo vero nome, a patto che qualcuno l’abbia mai saputo, è ormai scomparso del tutto. Chi si ricorda di lei, la ricorda con il nome d’arte di Franco Godiva.
Viene descritta come molto alta e molto magra, dall’età indefinita, forse di origine francese, sicuramente senza fissa dimora. Attorno a lei iniziarono a radunarsi gli altri membri di quello che sarebbe diventato il nucleo centrale degli A.C. Dabe. La loro prima esibizione avvenne intorno alle quattro e quaranta del mattino, sul finire del dj set di un ragazzino pallido con il viso sepolto dietro a occhiali da vista enormi. La pista da ballo, ricavata in un parcheggio deserto, era praticamente vuota. Giusto una coppia che amoreggiava nel retro di un’ape, e un tipo addormentato con la testa appoggiata sopra una lastra d’ardesia: questo il pubblico, questa la scena. L’unico testimone oculare si stava preparando per andare a lavorare, all’epoca faceva il panettiere e racconta di aver sentito un rumore, simile all’accensione prolungata del motore di un camion, o forse di un decespugliatore. Affacciandosi dal proprio balcone, il panettiere in ritardo vide Franco Godiva impartire ordini a un gruppo di quattro persone: uno di loro malmenava il giovane dj che aveva tentato di opporsi alla loro esibizione, un altro malmenava la batteria presente sul palco della parrocchia locale, mentre gli altri due avevano collegato al mixer delle pianole piuttosto voluminose. Il panettiere racconta di aver riconosciuto in uno dei due suonatori di pianola un tizio incontrato tempo prima al Sert: lo descrive come un uomo triste e incomprensibile, appassionato di proverbi e modellismo, quasi cieco, sicuramente un alcolista in fase terminale.
Il suono prodotto da quella specie di gruppo, dopo una prima fase di rodaggio, a detta del panettiere assomigliava al rumore di un forno spinto oltre il limite di rottura, mentre nella stanza riecheggiano il pianto lancinante di una bestia intrappolata in una tagliola. Il batterista invece si preoccupava di tenere in piedi una specie di ritmo ossessivo e forsennato, con una foga tragica e ridicola che lo costringeva ad alternare pianto e riso. “Sembrava un muratore”, dice il panettiere, “un boccia costretto a tirare su un muro nel mezzo del greto di un fiume, con l’acqua tutt’intorno che continua a farglielo crollare e della gente che dalla riva lo indica e ride. Della gente che ride di lui e del suo sforzo ma che un po’ lo invidia anche”.
Soltanto dopo qualche minuto Franco Godiva smise di impartire ordini e si unì agli altri. Prima applicandosi del rossetto chiaro sulle labbra e sui lobi delle orecchie, e quindi iniziando a canticchiare delle parole che il panettiere, ormai convinto che si trattasse di un gruppo di terroristi – “qualcosa tipo Brigate Rosse” – si preoccupò di annotare sopra un foglietto di carta, con la speranza che potessero valergli una tregua da parte dei carabinieri locali, che gli stavano sempre addosso a causa della sua passione per la cocaina.
Con una voce altissima e luminosa, a metà strada tra il canto e il fischio di un qualche volatile esotico, Franco Godiva iniziò a dire: “Niente più proprietà privata, né tribunali, né scuole, né cinema, né librerie, né caffè, né ristoranti, niente più ospedali, né negozi, né automobili, né ascensori, niente più cosmetici, né gelaterie, né riviste, né posta, né telefono, né vino bianco, né spazzolini da denti”.
Più l’elenco continuava e più la voce di Franco Godiva si faceva stupenda, come un lenzuolo pulito e profumato che ti arriva in faccia dopo essere fuggito all’interno di un condotto fognario lungo quanto un’adolescenza intera. Nel mentre, ai suoni brutali e violenti prodotti dagli altri quattro, si univa una voce, una voce spettrale e filtrata in modo osceno. Una voce che il panettiere riuscì comunque a riconoscere, perché l’aveva già sentita molte volte, in passato, facendo a cazzotti sulla pista degli autoscontri, era quella di Eros Ramazzotti, rinchiuso in una strofa sola ma famosa, quella che dice “Lavoro di voce lo sai”.
Il panettiere non sapeva, e continua a non sapere, che le parole cantate o fischiate da Franco Godiva arrivavano da lontano, dalla Cambogia, e facevano parte dei proclami folli dell’Angkar comandato da Pol Pot. Ciononostante, in quella sera di un lontano settembre, il panettiere avvertì un fastidio acuto e disturbante, causato dal proprio desiderio di cercare rifugio in quel lugubre elenco di divieti pur di sfuggire alla voce di Eros Ramazzotti, a quel “lavoro di voce lo sai” che usato in quel modo lo faceva sentire prigioniero di un campo di sterminio infinito e immotivato.
Per sua fortuna il concerto durò dieci minuti appena. Sopraggiunsero infatti le forze dell’ordine con le loro sirene e la loro passione per i verbali. I due giovani carabinieri ebbero giusto modo di osservare uno dei componenti della band, quello che aveva picchiato il povero dj, intento a eseguire un assolo di chitarra a pantaloni calati e con una carota in culo, mentre gli altri, Franco Godiva compreso, si erano ormai sdraiati in terra a osservare il cielo.
Quello stesso cielo che adesso guarda noi e dice, basta così. Ci vediamo alla prossima.