Quando si analizza criticamente una certa tendenza sociale al vittimismo, alla servitù volontaria, quando si indaga la paura diffusa, i modi in cui si articola il rifiuto della responsabilità… si corre sempre il rischio di sentirsi accusare di stare giustificando gli abusi di potere, di star facendo “victim blaming”, di stare esortando la gente a “tirar fuori le palle”. Sono rischi reali: dalla critica dell’impotenza alla celebrazione del potere, dell’azione virile o dell’onnipotenza del soggetto nel capitalismo (stile sogno americano “se puoi sognarlo puoi farlo” – con corollario di un proliferare di donne empowered su Netflix) è un attimo. Ma il passo è breve non per malafede del critico, è breve perché le due cose (impotenza e onnipotenza) sono due facce della stessa medaglia, sono una la risposta e la reazione all’altra. Tra impotenza e onnipotenza, o anche tra impotenza e potere, si situa, come alternativa a entrambi, la potenza di spinoziana memoria, che è simile all’agency di cui parla Judith Butler, di cui ho trovato una definizione illuminante in Queer psicoanalisi dell’analista omosessuale Fabrice Bourlez:
Da un libro all’altro, il termine è reso in modo diverso: agenzia, capacità di agire, possibilità di agire... L’agency è la facoltà dei soggetti in quanto non più intesi come unità individuali, dotate di volontà e competenza, bensì come punti al crocevia tra l’intimo e il pubblico, all’intersezione tra le determinazioni linguistiche e gli effetti del potere, luoghi in cui si iscrivono le possibilità di trasformazione del sé, di alterazione del sé e di dipendenza da ciò che esiste. L’agency è il contrario del conscio, è l’appello alla libertà di un inconscio che compie un’azione.
– Elisa Cuter
Trigger warning
di Sara Marzullo
La scena del casting di modelli in Triangle of Sadness, in cui un giornalista mostra la differenza tra una sfilata di Balenciaga e una pubblicità di H&M, fa ridere la prima volta che la vedi. Il fatto è che la scena è già nel trailer, quindi quando appare nel film ha già perso la sua brillantezza, sembra già sentita, come i tweet quando li condividi con qualcun altro. Look down on your customers! We are so happy, come and join us! Ah-ah-ah.
Quella scena mostra un meccanismo onnipresente di desiderio e negazione, di seduzione e rifiuto, un meccanismo potente e pervasivo: nonostante sia noto anche per chi abbia solo una vaga idea di come funzionino l’aspirazionalità e la distinzione, questo meccanismo continua a influenzare molte delle nostre scelte e azioni, ma non è certo la prima volta che qualcuno lo nomina o lo mostra al pubblico. Il modo in cui lo fa Östlund sembra indicare il contrario, tra il didattico e lo sfacciato, ma visto che sembra ribadire un poco l’ovvio, diciamo che dovrebbe solo farci ridere.
Il problema delle battute è che non le puoi spiegare, quindi un film costruito primariamente sulla ridicolaggine della classe dominante quando viene confrontata con la propria limitatezza si consuma prima del tempo; c’è certamente qualcosa di catartico nel vedere l’alta società rivoltarsi nei propri fluidi (anche per l’alta società intellettuale stessa, a cui il film sembra diretto), ma usciti dal cinema ci si sente come usciti da quelle stanze della rabbia in cui si spacca tutto. Se ci sono detriti e rovine, non sono nostri.
Ah-ah-ah la coppia di inglesi uccisa dalle stesse bombe che produce! Ah-ah-ah lo champagne non aiuta col mal di mare! Ah-ah-ah il comandante americano socialista si vendica di tutte le stronzate ascoltate durante le cene recitando Marx all’interfono!
Con Triangle of Sadness Östlund avrebbe dovuto costruire una satira feroce, mettere in scena la farsa che è la vita dell’altissima borghesia, ma il modo in cui lo fa è così evidente e sfacciato da sfiorare il didascalico. È uno dei motivi per cui di questo film c’è da dire ben poco, perché spiega, invece di suggerire, mostra, invece di indicare. Anche i ricchi stanno male, sembra dirci Östlund: sembrano tanto potenti ma poi alla resa dei conti non hanno alcuna risorsa e si rivelano patetici. E nessuna influencer mangia gli spaghetti che vedete nelle foto. Ma forse già lo sapevamo.
C’è un personaggio che però mi ha colpito – Carl, il modello che guadagna meno della fidanzata influencer, ma non per questo non vuole pagarle la cena, ma perché vuole che siano uguali, non ancorati ai vecchi stereotipi di genere. Carl è alto, canonicamente attraente e ha un volto abbastanza innocuo per diventare famoso. Quando vuole, quando non sta rilassando il suo triangle of sadness, ha l’aspetto di un animale ferito che spera tanto di essere adottato, un musetto triste, ma attraente, che sembra quasi incoraggiare gli altri a fargli del male. Quando Yaya ammette di non poter fare a meno di manipolarlo, lui risponde che la ama tanto. Quando un’altra donna lo sfrutta per avere dei favori, risponde la stessa cosa: ti amo. Carl è il simbolo di quella passività parassitaria che sa sfruttare la corrente. Assume l’identità necessaria al contesto – del resto è un modello, no? – eppure è difficile individuare con esattezza le forme di opportunismo che adotta per restare a galla.
A giudicare dalle sue azioni, infatti, potremmo perfino dire che è una vittima delle circostanze: la fidanzata non lo vede, l’altra donna lo desidera solo in virtù del suo essere attraente. Se non lo diciamo è perché solitamente il suo ruolo è femminile, obbligato di volta in volta ad affidarsi al potente di turno, ma se Carl venisse a raccontarmi che la sua compagna non ha nessuna forma cura di lui e si approfitta in modo palese della sua gentilezza, gli direi di lasciarla immediatamente, probabilmente senza mettere in discussione il suo ruolo all’interno della dinamica della relazione. Gli direi di avere più cura di sé, capire di più come sta. Mi ha ricordato un amico, che nelle prime fasi di una sua frequentazione etichettava il ragazzo con cui usciva come narcisista patologico, confessando anche di sentirsi manipolato da lui. Vedevo la sua storia solo dal suo punto di vista e non in alta definizione su uno schermo, e quindi gli credevo sulla parola, finché mi sono resa conto che mi diceva tutte queste cose non perché volesse troncare e avesse bisogno di supporto, ma per giustificare piuttosto un rapporto particolarmente conflittuale, rispetto al quale però non voleva riconoscere le sue responsabilità. Dire che il suo ragazzo era patologico voleva anche dire che doveva volergli bene senza condizioni. Essere una buona persona, insomma.
Il conflitto non è abuso: credo di aver sentito questa espressione prima di sapere che era il titolo di un saggio di Sarah Schulman, da poco pubblicato in Italia da minimum fax. Mi sembra un’espressione più che azzeccata in questi casi. Schulman, autrice anche del buono The gentrification of the mind, si fa carico di tracciare una linea di distinzione tra i concetti citati nel titolo, cercando di distinguere tra le cose che ci accadono e quelle che facciamo in modo che ci accadano, tra quelle in cui giochiamo un ruolo e quelle che subiamo.
Negli ambiti più intimi e personali, molti di noi hanno amato e si sono fidati di qualcuno che ha violato quella fiducia… fare esperienza della confusione, del disaccordo, della frustrazione e delle differenza in una relazione non significa andare incontro a un nuovo tradimento. Se ci sentiamo in ansia non significa che qualcuno ci sta facendo qualcosa di ingiusto.
“Il fatto che qualcosa possa andare male non significa che siamo in pericolo: significa che siamo vivi”, e aggiunge che individuare il nostro ruolo nelle dinamiche, che il therapy talk d’accatto ci ha insegnato a definire abusanti, è invece un modo per appianare le tensioni e risolvere i conflitti. Sempre che uno lo voglia fare. Del resto tutte queste etichette, narcisista, abusante, tossico ecc., ci hanno insegnato che serve poco per tirarci fuori dai guai e per bloccare ogni possibile conversazione sgradevole e avere immediatamente ragione. Nella maggior parte dei casi queste definizioni non sono grida di aiuto, spiega Schulman, ma richieste di fedeltà, del tipo “sono stata violata e sono in pericolo e per questo merito il sostegno incondizionato del gruppo” (enfasi mia). In cambio, basta rinunciare a qualsivoglia traccia di intenzionalità, assumere una posizione di totale passività per ottenere un po’ di compassione – sempre a patto di rientrare in una delle categorie che, per usare una categoria di Judith Butler, qui ampiamente citata, sono degne di lutto.
Schulman mette insieme l’ambito relazionale con temi più strettamente sociali e politici, come la criminalizzazione di determinate fasce della popolazione e l’occupazione della Palestina a opera di Israele. Dice che sappiamo cos’è l’abuso ma difficilmente abbiamo imparato cosa non lo è, per cui ricorriamo a questa categoria quando siamo messi di fronte a una situazione complessa e dolorosa: sappiamo che una volta pronunciata quella parola il gioco si ferma e siamo portati in salvo, senza che nessuno si prenda la briga di indagare fino in fondo cosa è successo – che proteggere è meglio di capire, soprattutto in una società appesantita da un concetto vago ma pervasivo come quello di empatia. Se solo fossimo tutti più buoni, ecc. La richiesta di essere più comprensivi, insomma, non coincide con quella di comprendere di più.
Quella che emerge è una società terrorizzata dalla vergogna – aver commesso un errore, aver partecipato a una dinamica conflittuale, violenta, o anche solo stupida, di avere l’opinione sbagliata rispetto al proprio gruppo di appartenenza – che non riesce a mettersi in discussione. Se appartenere alla propria cerchia, alla propria comunità è ciò che ci rende essere umani in relazione, ci fa sentire parte di qualcosa più grande, non appena il concetto di comunità si forma su base strettamente e profondamente identitaria (cioè la comunità è le sue idee, le sue opinioni, non i rapporti), qualsiasi forma di tensione o divergenza può diventare ragione sufficiente per l’esclusione – non tanto (o non solo) per la difficoltà di accettare la differenza, quanto perché quella differenza ci mette in dubbio sulla nostra giustezza, per così dire. Una società in crisi e in sovraccarico, per cui di fronte a un dubbio, la soluzione sta sempre nel dare ragione a chi appare più debole e ci fa apparire migliori, senza indagare ulteriormente. Ma anche una società in cui la solidarietà tra le parti non è data per scontata, ma va conquistata, elemosinata ogni volta, in cui ogni errore sembra riportarci al punto di partenza, senza niente su cui poter contare, i cui rapporti sono basati su un sistema di crediti e debiti da cui è difficile sfuggire. Identificarsi con la parte lesa è la soluzione migliore per accumulare consenso, come mostra la destra in quasi tutte le sue traduzioni politiche contemporanee di taglio strettamente vittimistico e, in caso sia impossibile, bisogna identificarsi con chi ha l’opinione giusta e di buon senso, come mostra quasi tutto il centro e la sinistra parlamentare. Ai primi il senso di crisi, ai secondi il senso di progresso storico e sociale.
Nel suo libro Schulman si concentra molto sulle conseguenze che paga chi è colto in flagrante a esprimere una posizione sbagliata, che lo mette in cattiva luce – su chi subisce le conseguenze dell’esclusione, della condanna, della calunnia. Di come i comportamenti leali (stare dalla parte dei nostri) finiscano per sfociare nel bullismo e nell’umiliazione, anche quando sono animati da intenti non maligni, perché questi intenti sono, ancora una volta, di protezione e non di comprensione. La violenza non è per forza un buco nero che risucchia tutto, tenta di dire Schulman, perché possiamo pensare alla riparazione, a costruzioni alternative. E chiaramente la violenza non è la giustificazione a commettere atti altrettanto violenti – soprattutto quando quegli atti non avvengono in reazione a una situazione presente, ma derivano da pattern, da traumi non rielaborati.
“Una cosa è subire violenza, altra cosa è utilizzarla per fondare una struttura di pensiero in cui l’offesa subita autorizza un’aggressione illimitata di altre persone che possono anche non avere nulla a che fare con l’origine della propria sofferenza”, scrive Butler in Vite precarie, brano che Schulman cita per spiegare come i trigger warning siano segno di una resa collettiva all’irrisolvibilità del danno, in cui la reazione deriva da qualcosa del passato che nega l’esperienza del presente. La pervasività di questi trigger warning prima di qualsiasi tipo di film è un segno di questo tipo di protezione che mostra tratti narcisisti, resi meno evidenti dal ricorso alle categorie di passività, abuso e generale fragilità, simili a: non posso essere che me stesso, non posso farci niente.
In questi anni, lavoro a contatto con i preadolescenti: qualsiasi cosa facciano, i miei alunni dicono sempre ma io non ho fatto niente, anche di fronte all’evidenza. Hanno dodici anni e la cosa che temono di più è essere puniti o, più genericamente, essere ritenuti colpevoli e responsabili di qualcosa. Vale anche per chi è più oppositivo, ribelle, spaccone, il loro sé sembra troppo fragile per essere messo in discussione, anche quando si tratta di questioni banali e che non porteranno a conseguenze reali – ma tant’è, quello è il loro orizzonte e ognuno prova a fare ciò che può. Immagino che ci siano pochi argomenti meno Gua Sha della scuola pubblica italiana, ma è un buon posto per vedere realizzate le trasformazioni culturali che altrove percepiamo appena. Alla fine dire ma io non ho fatto niente non è la stessa cosa di dire x è una persona tossica o metterci tutti i giorni di fronte a posizioni da prendere, bivi esistenziali (sei contro o a favore di x?), esagerare la propria passività (non possiamo farci niente, dobbiamo accettare il fallimento) o la crudeltà altrui?