Ieri stavo risfogliando Pure Colour di Sheila Heti, perché ci sto scrivendo sopra un articolo; dire “stavo risfogliando” un libro mi fa orrore perché dà l’idea che i critici letterari stiano tutto il giorno ad accarezzare libri come fossero tappeti, ma era quello che stavo facendo, cercare di ricordarmi abbastanza per poter scrivere di qualcosa che ho letto sei mesi fa. In Pure Colour Mira vuole diventare una foglia, assorbire la luce e restare lì, a osservare il passaggio delle cose e delle persone, essere effimera o eterna, come fossero la stessa cosa – perché forse sono la stessa cosa. Questo ricordavo, almeno fino a ieri, quando ho letto che, prima di diventare una foglia, Mira sognava di essere una critica d’arte, avere “una vita difficile sul filo del rasoio dei sentimenti, perché questo significava essere un critico d'arte”. L’altro giorno ho sentito dire a un’attrice che i critici non servono a niente, che si comportano tutti come se stessero dicendo qualcosa che gli altri non sanno, come se gli artisti vivessero circondati da amici che li proteggono dalle critiche, mentendo, e tocca a loro dire la verità – che poi è esattamente quello che succede, ed esattamente il loro ruolo. Roxane Gay in In defence of thin skin and not taking a joke – “the most liberal headline ever”, come commenta il mio ragazzo – annuncia che bisogna piantarla di valutare positivamente la capacità di accettare le battute altrui, che lei vuole difendere la pelle sottile (non farsi una corazza?), i propri confini, l’essere umano, far rispettare i propri limiti. C’è solo l’individuo. Non so se sia preferibile diventare anche noi foglie, come Mira, che ne pensi Francesco? Intanto continui a scrivere questi romanzi d’ombra in cui le cose sembrano note e poi, scostando un velo alla volta, ci disorienti – direi che ci manipoli, se non fosse che scompari anche tu e siamo tutti spaesati, senza finale.
Non so se te lo ricordi, ma una volta anni fa abbiamo discusso e non ci siamo parlati per qualche giorno – mi avevi detto di non essere una fangirl e io avevo l’impressione che ce l’avessi con qualcuno o qualcosa ma che non ero io nello specifico – e poi ci siamo chiamati e abbiamo parlato di Sheila Heti e della scrittura sapienziale; penso che tu ne percepissi i limiti e le stonature e che per me invece fosse profonda a sufficienza, come un’illusione che potevo permettermi. Chissà se la pensiamo sempre così, chissà se a quel tempo la pensavamo così, a volte parlare tra noi è solo condurre “una vita difficile sul filo del rasoio dei sentimenti”, per questo ci rispettiamo.
– Sara Marzullo
Tre ragazzi
di Francesco Pacifico
Quest’anno compio quarantacinque anni e, come avevo sempre letto nei romanzi, sto cominciando a vedere i lineamenti di mio padre al posto dei miei ogni volta che mi guardo allo specchio. Ma quando mi guardo allo specchio, ancora in parte mi sembro me. La sensazione di conoscermi, di essere ancora me scompare del tutto quando mi vedo in fotografie appena scattate, quando un’amica posta una storia su una foto mia e di mia moglie durante una serata insieme, o nei post con fotografie di miei eventi pubblici. Nelle foto di trequarti scopro un profilo allungato – la mia testa, vista di lato, mi fa pensare a un pesce con i lineamenti di mio padre.
Il rispetto dei giovani è una consolazione, anche se devo imparare meglio ad assumere questa medicina, la cui posologia non si può lasciare all’improvvisazione, sebbene non abbia conosciuto ancora il medico capace di prescriverla nella giusta quantità.
Mi ci hanno fatto pensare tre ragazzi con cui oggi ho fatto l’aperitivo. L’invito nasceva da loro, volevano raccontarmi un loro progetto. Sono noto per essere un sostenitore dei giovani. È riconosciuto il mio impegno in favore delle femministe, la mia battaglia per la pari visibilità sulle riviste e nell’arena pubblica; e faccio la mia anche per i pochi maschi che meritano attenzione, che si pongono con un atteggiamento costruttivo e inclusivo nelle loro attività. Questi tre ragazzi stanno mettendo in piedi delle serate di cultura e filantropia, mi hanno scritto per ricevere la mia benedizione. Ho rilanciato proponendo un pranzo al mio circolo, loro hanno declinato, volevano vedermi in un ambiente più informale. Non ho insistito, ho apprezzato la loro personalità, li ho raggiunti nel loro quartiere. Il mio autista mi ha aperto lo sportello mentre cominciava a fare qualche goccia; durante il percorso dal centro in periferia è sceso un acquazzone, e come la pioggia ha cessato non c’è stato tempo perché il cielo brillasse; era già sera, e l’autista mi ha lasciato in questa via stretta di palazzi popolari abbastanza alti da non rivelare che un’alta striscia di viola incerto. I tre ragazzi erano appoggiati alle vetrine di un bar a fumare sigarette. Mi hanno accolto festosamente.
Li ho guardati. Pareva ieri che anch’io ero come loro.
Ho tirato fuori questa foto appena sono rientrato a casa. Questa casa triste, ora che la mia seconda moglie mi ha lasciato. Da giovane pensavo che sarei arrivato a cinque matrimoni, come Saul Bellow, ma diverse delle relazioni avute tra la prima e la seconda donna che mi hanno sposato ufficialmente sono state, a differenza di queste due, relazioni di puro amore, condotte lontani dagli avvocati, dai gioiellieri, dagli agenti immobiliari, in un ambiente diverso. Forse erano momenti in cui avevo bisogno di respirare, di allontanarmi per un poco dal centro, dalle sue voglie stritolanti, dalle sue esigenze, dalle responsabilità.
Ma poi l’attrazione della vita dove l’aria è rarefatta, il desiderio di tornare al centro pulsante delle cose, mi ha fatto rinunciare alle relazioni d’amore e mi ha riportato dove succede tutto, nei corridoi del potere, con i relativi matrimoni.
Per quei ragazzi nel baretto, che mi aspettavano ansiosi di sottopormi il loro progetto, io ero solamente una colonna del palazzo della vita in cui volevano entrare. Loro che per me erano il futuro, con quelle camicie non stirate e i riccioli leggeri, guardavano me come si guarda il futuro, perché in fondo io, facendo la spola tra il centro e il loro localetto, rappresentavo per loro il più fresco, verde, giovane futuro.
Io, vecchio, io, lo sguardo di mio padre, entravo in quella bisca di periferia portando un vento di novità. Come mi guardavano. Che consolazione, che medicina il loro sguardo.
Mi hanno sottoposto il progetto, una cosa sensibile, pensata bene, che sotto sotto spingeva Agamben e Sanguineti in chiave quasi eversiva, ma giocando, in superficie, a illudere il grande pubblico di voler solo omaggiare Saviano, Benigni, Moravia. Un malizioso balletto tra il popolare e l’avanguardia, con solo tre microfoni, un altoparlante e un buon proiettore – e tanti, certo, tanti contatti in rubrica. Manovra di aggiramento della maggioranza morale. Con riferimenti quasi sapienziali alla stagione del terrorismo. Un gioco per loro tre, con cui affermarsi, ma anche dichiararsi in tre l’emozione di essere giovani, di esserci, di volere, di ardire. Tutti e tre erano fidanzati ufficialmente – si sono raccontati, si sono aperti con me – ma mi hanno giurato che il vero amore era quello fra loro, fra loro tre, e hanno giurato che si sarebbero allontanati, che avrebbero cercato ciascuno la propria strada particolare, solo dopo aver raggiunto insieme la Mecca, il centro, il mondo a cui speravano io mi convincessi ad avvicinarli anche solo di un metro.
Loro non vedevano me, la mia solitudine, i dubbi su come ho speso i veloci anni della mia vita adulta e produttiva, della mia vita sotto i riflettori. Loro vedevano un nome, un brand, un sistema di valori, e avevano bisogno della mia compagnia anche solo per sentire rinnovate le loro promesse reciproche. Per lunghi minuti della loro presentazione quasi non riuscivano più a rivolgersi a me, ma si parlavano tra loro, felici che io fossi in mezzo a loro, come un soffio leggero, uno spirito capace di dare verità alle loro parole e ai sentimenti reciproci che li legano.
Dicevo prima: è una medicina questo rispetto. Sentirmi chiamato a sedermi al tavolo di un gruppo di giovani semplicemente per fare da garante del loro entusiasmo. Per dare loro alcuni numeri di telefono, indirizzi. Per benedirli con lo sguardo benevolo che sempre speravo, crescendo, che i miei mentori volessero accordarmi. Ma è una medicina che nessuno sa in che dosi assumere. Come mi ha steso, oggi. Dov’è il bugiardino per capire quale dei suoi effetti collaterali mi ha allettato non appena sono tornato a casa?
Le mani sudano fredde mentre digito queste righe da solo sul personal computer, sdraiato nel letto, questo letto troppo grande per le mie ossa che rimpiccioliscono ogni giorno, troppo grande per la mia poca voglia di trovare un rimpiazzo alla mia ultima moglie.
Il mio assistente mi ha chiesto se doveva restare oltre l’ora di cena per farsi dettare i miei pensieri, ma è qualcosa di troppo duro da scrivere. Li avessi dettati a lui mi sarei chiesto continuamente cos’è che sto cercando di dirmi. Ho bisogno di digitare liberamente con queste dita doloranti. Piove un quarto d’ora e le sento cigolare. E sudano come avessero trattenuto l’umido della pioggia e tentassero disperatamente di sfebbrarlo. Cosa sto cercando di scrivere, cosa ho bisogno di dire?
E se fosse qualcosa che non si può dire? Se il nucleo di questa emozione fosse questo particolare sudore freddo che sento solo al centro dei palmi delle mani, nemmeno sull’interno del polso e sulla parte morbida del palmo, che appoggia sulla superficie dorata dell’apparecchio, ma proprio solamente nel centro delle mani?
I ragazzi hanno ricopiato i numeri di telefono e gli indirizzi nei loro quaderni e dopo che si sono assicurati queste entrature avevano gli occhi più grandi, i riccioli più leggeri, boccolosi. Si lanciavano sguardi che parevano dire: È vero? È vero!
Mi hanno chiesto se potevano offrirmi la cena in una osteria della zona, stavolta sono io che ho detto no: ho spiegato che non volevo imporre la mia presenza, intiepidire la serata con i miei appetiti ormai modesti.
Da ragazzo fantasticavo su che genere di vecchio sarei diventato. Immaginavo i vecchi tutti focosi. Non so se doveva comunque essere così, se è biologia, o se è stato il potere a moderare fino a questo punto i miei appetiti privati.
Sono andato via da quel caffè sbicchierato e chiassoso salendo in macchina nell’umido della sera, impermeabile e ombrello agganciati a un avambraccio. Mi sono lasciato andare contro il sedile, avvolto dal profumo di neroli che l’autista ricorda sempre di diffondere in macchina quando torno dagli appuntamenti, che mi predispone al rientro a casa, alla fine della giornata.
Il cuoco mi ha lasciato l’avanzo di bollito nel microonde e il timer già programmato. Il personal computer era in carica, ho potuto staccarlo dal cavo e portarmelo a letto. Nemmeno ho cenato. Sono andato in bagno a fare le abluzioni, ho bevuto un bicchiere d’acqua e limone, ho pregato, poi, nel letto, ho raccolto il computer e l’ho messo in grembo, come facevo da giovane, come non facevo da anni, e ho cominciato a scrivere cercando di parlare a me stesso, senza il cuoco, l’autista, l’assistente, senza tutto il correntone e la vita velocissima, supersonica che il correntone mi ha permesso di vivere, sempre tutti agganciati, tutti pronti a servirci gli uni gli altri, sempre fedeli, sempre lì nei posti giusti, sempre umili nel riconoscere che nessun uomo si fa da solo, che è la cordata la nostra tavola rotonda. E solo, io e queste mani dai palmi sudati, ho provato dopo tanti anni a fare i conti con me stesso, a rivolgermi una parola, forse un saluto, e continuo a scrivere aspettando di dirmi qualcosa.
La vita è passata così in fretta.