Qualche tempo fa Adelphi ha pubblicato nella collana Microgrammi un libricino dal titolo Lo stile paranoide nella politica americana (traduzione di Francesco Pacifico). L’autore è Richard Hofstadter, storico e due volte premio Pulitzer. Il libro si legge in un paio d’ore ed è sorprendente per un paio di motivi: perché le riflessioni di Hofstadter risalgono a più di mezzo secolo fa e perché riguardano deliri, fobie e timori che attraversarono la società americana già a partire dall’Ottocento. Eppure il libro sembra scritto nel nostro tempo. Sembra descrivere la psiche degli americani di oggi e l’attualità della politica, della cultura e del folklore americano contemporaneo. Il pezzo di Sara Marzullo di questa settimana racconta di un documentario di Andrew Callaghan, in cui si racconta di questa grande follia. Certe paure e tentazioni, naturalmente, non ci sono estranee. Ricordo un pomeriggio, ormai una decina di anni fa, in cui entrai in un negozio di pasta fresca e non so come a un certo punto la commessa, una signora molto gentile, ma pure molto ombrosa, facendo avanti e indietro dal laboratorio, cominciò a parlarmi delle tante stranezze intorno alla morte di Rino Gaetano. Rino Gaetano era stato ucciso. Forse da una loggia massonica deviata. O dall’ordine della Rosa Rossa. Tutte ipotesi e suggestioni per le quali, in realtà, confesso un debole e una certa tendenza a lasciarmene contagiare. Ho letto pagine e pagine online su certe catene di omicidi e misteriose sette di assassini. Letture assolutamente appassionanti e con un loro folle contenuto veritativo. Tra le conseguenze del famoso complottismo, mi viene da aggiungere, c’è pure il fatto che criticare e dubitare del potere, sia a sua volta divenuto un atteggiamento automaticamente sospetto e classificato sbrigativamente sotto il termine “complottismo”. La scena di questi anni è stata occupata da questo scontro tra complotto e debunking, tra irrazionalità e razionalità sbruffona alla Roberto Burioni. Non è stato un grande spettacolo.
– Ivan Carozzi
This Place Rules!
di Sara Marzullo
This place rules è un documentario diretto da Andrew Callaghan, uscito lo scorso 30 dicembre per HBO e prodotto dall’ormai onnipresente A24 insieme alla Abso Lutely Productions, la casa di produzione dei comici Tim Heidecker e Eric Wareheim. Negli appena 82 minuti di This place rules, il venticinquenne giornalista-barra-videomaker(-barra-comico?) di Seattle mette in fila gli eventi che dall’elezione di Biden hanno portato l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 – o almeno ci prova. Per farlo, per raccontare cioè gli eventi di quelle settimane, si avvale proprio dei loro protagonisti, andando a interrogare la cosiddetta estrema destra americana. Tuttavia, i fatti non vengono raccontati ex-post, ma in presa diretta, grazie alle ore di filmati e interviste girati dallo stesso regista durante i comizi, le manifestazioni e i sit in che si sono succeduti in quei due mesi.
Niente a che vedere con quelle produzioni ottimizzate di Netflix in cui le persone parlano su sfondo nero e i droni riprendono le città, perché Callaghan, un ragazzone americano pallido, alto e invariabilmente vestito con completi color beige troppo grandi, ha fatto del giornalismo gonzo la sua cifra distintiva, rappresentando il frutto ultimo e ulteriore di quell’ondata di reportage indipendenti che, dai blog e dalle testate autofinanziate, ha trovato poi terreno fertile su YouTube. Il suo metodo di lavoro, infatti, è piuttosto semplice: gira per il paese sul suo camper, per partecipare agli stessi eventi a cui partecipano le persone che vuole intervistare, per incontrarli e parlare con loro.
Callaghan ha una passione viscerale per le storie degli altri, tanto più quando sono assurde e improbabili: del resto, la prima cosa che abbia mai pubblicato è un libro sull’estate in cui, appena finito il liceo, ha attraversato gli Stati Uniti facendo l’autostop. All Gas No Brakes, questo il titolo del libro (lo trovate qui), racconta gli incontri allucinanti e incredibili che ha fatto lungo la strada – tenendo conto che a caricare un autostoppista nel nuovo millennio sono rimaste solo persone altrettanto svitate o che hanno vissuto in una grotta da quando Non aprite quella porta ha trasformato l’immagine degli autostoppisti da hippy innocui a killer psicopatici.
All Gas No Brakes, oltre a una specie di mantra, è diventato poi il nome della casa di produzione per il suo progetto successivo, in cui di notte, finito il turno come portiere, Callaghan girava per il French Quarter di New Orleans a chiedere alle persone di confessare i loro segreti più intimi alla telecamera – cosa che in molti erano disposti a fare, complici l’alcol e il fatto che nessun’altro fosse disposto ad ascoltarli. Il segreto di Callaghan sta infatti praticamente tutto qui: nella completa e totale dedizione all’ascolto delle storie altrui, senza giudizio.
This place rules segue lo stesso approccio: raccoglie, cioè, le dichiarazioni di tutta quella parte di elettorato statunitense che, sentendosi non rappresentata dai media tradizionali, si è coagulata attorno a piattaforme online, testate di controinformazione, organizzazioni di estrema destra di ispirazione suprematista, gruppi e gruppuscoli di varia appartenenza. Da uomini che si sono resi irrintracciabili, a sostenitori di cospirazioni, conduttori televisivi e leader che hanno reso questa la loro fonte di profitto, a fanatici di Trump e intere famiglie che si sono radicalizzate su QAnon, le persone con cui parla Callaghan sono per la maggior parte appartenenti a quella costellazione vaga che chiamiamo alt-right e che non vediamo se non nelle notizie allarmistiche dei media; sono le persone che hanno ispirato o hanno partecipato agli eventi che hanno portato al 6 gennaio 2021. In questo documentario sono, soprattutto, persone.
Assistiamo a bambini di 7 anni che urlano in un megafono che il virus è stato prodotto dagli uomini e che, contemporaneamente, non esiste, c’è chi dice di avere le prove che esista un potere segreto nel governo degli Stati Uniti, governato dai Democratici, che si nutre di bambini e ha l’obiettivo di imporre politiche comuniste, o che in laboratorio si progettano ragni-capre da cui ricavare il latte e feti da cui asportare organi, chi è profondamente convinto che dobbiamo proteggere donne e bambini da una cabala di pedofili, chi ha le prove del fatto che le elezioni sono state rubate per mantenere questo sistema al suo posto. Insomma, assistiamo a tutta la follia che si è prodotta nel momento in cui il panorama delle informazioni si è chiuso in echo chambers sempre più piccole e in cui le intuizioni sono diventate fatti provati. A uno di loro Callaghan chiede: You ever feel like you've gone too far down the rabbit hole, man?. E la risposta è: Whatever I am digging deep into it’s going to put me in a grave – onesto, insomma. Ma non c’è solo questo: ci sono anche le persone che partecipano alle manifestazioni di protesta contro i gruppi sopra elencati, chi difende il territorio della propria città dall’invasione dei Proud Boys, gli anti-trumpiani, chi si identifica come ANTIFA. A entrambe le fazioni e, in particolar modo a coloro che senza avere posizioni di rilievo hanno preso parte ai raduni, sit in e proteste di quelle settimane, Callaghan presta l’ascolto.
Quello che ne esce è una divisione ideologica che pare insanabile, che si è mineralizzata nella frammentazione dell’orizzonte storico degli eventi, trasformandosi nell’impossibilità di condividere quella che definiremmo come realtà. E, soprattutto, un enorme e straziante senso di assenza di direzione e di appartenenza – che sembra non risparmiare nessuna delle due parti. Qui sta il valore di questo documentario, nel lasciar parlare le persone o nell’incalzarle quando esprimono assiomi e convinzioni incrollabili, per vedere che dietro a discorsi tanto assoluti sembrano annidarsi tutti i dubbi del mondo. Se i discorsi su cabale, politici cannibali e rettiliani ci sembrano chiaramente folli o dotati di una logica assurda e staccata da qualsiasi oggetto reale, anche le dichiarazioni accaldate dei manifestanti anti-trumpiani suonano spesso superficiali e inconcludenti, basate su un desiderio di far parte di quella che – per estrazione, cultura e classe di provenienza – è la parte giusta, quella più capace e più prossima a fornire un senso di appartenenza. Messi di fronte a quelli che dovrebbero essere i capisaldi della loro esistenza, i valori per cui sono disposti a scendere in piazza, gran parte dei manifestanti intervistati da Callaghan sembrano ripetere un mantra di cui non sono del tutto sicuri, ma che è capace di assicurare il plauso della propria cerchia di riferimento.
Il pregio di Callaghan sta nella capacità di mettere in primo piano il senso di disconnessione tra le persone e il mondo e il desiderio di riconquistare, in un modo o nell’altro, una comunità. E sono questi i motivi che, per chi non appartiene al demografico di media “tradizionali” o di centro, come il Guardian o Il Post, la cui rappresentazione della società è parziale e trasparentemente ideologica, hanno spinto down the rabbit hole, nelle braccia di profittatori e organizzazioni che, con la pretesa di fornire finalmente strutture di senso, hanno costruito immense fortune personali.
È un documentario su come il conformismo diventi una forza maniacale e pericolosa nel momento in cui tutto ha perso un contesto riconoscibile, per cui accettiamo di essere guidati nelle nostre opinioni, senza avere la forza di mettere in discussione la cornice ideologica entro cui queste guide operano. Come dice in un’intervista con la CNN:
il documentario non è solo sull’assalto a Capitol Hill, ma anche sulle echo chamber create dai media e i pericoli del ciclo di notizie che va avanti ininterrotto per 24 ore, per cui i media mainstream come Fox o anche CNN competono per visualizzazioni e ascolti, trasmettendo notizie basate su paura, divisione, indignazione e panico, sostanzialmente per vendere inserzioni pubblicitarie.
Troppo duro? Non saprei – e la reazione del conduttore, indignata e che tenta subito di scrollarsi di dosso l’ipotesi di mandare in onda fake news (quando Callaghan si riferiva chiaramente alla carica emotiva e all’orizzonte identitario entro cui i media tradizionali operano) sembra dargli ragione.
Il problema di fare un film, però, è che serve un finale, anche quando si tratta di un documentario, ma estrarre senso o un insegnamento o persino un pattern da questo affresco spinge This place rules in una direzione forzata: quando le persone sono entrate a Capitol Hill non sapevano cosa fare, i più o meno leader che li avevano portati lì si erano fatti indietro, erano irrintracciabili, e in seguito si sono dissociati da quelle azioni, come un crimine senza colpevole, ma con qualche esecutore materiale che non conosce bene il piano d’attacco. Anche la pressione per rendere quel momento l’attacco definitivo alla democrazia sembra, a distanza di due anni, una definizione che non combacia con la realtà. Di tutta quella escalation di violenza dei mesi precedenti non sembra essere rimasto niente, se non un ulteriore non sequitur che minaccia ancora di più del tempo e della storia come linea progressiva.