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Quando Ivan mi ha detto cosa avrebbe scritto per questo numero di Gua Sha, ci ho messo un attimo a ricordare. Fuori dal finestrino del bus che mi porta in Borgo Vittoria splende un sole caldissimo, mai così caldo, e l’unico residuo evidente della pandemia sono le mascherine che qualcuno porta. Anche se sono ancora obbligatorie sui mezzi, nessuno si prende più la briga di farlo notare a chi non le ha, che non le indossa penso più per dimenticanza che per esprimere qualche posizione radicale sul mondo e il suo funzionamento. L’altro giorno sul bus è salita una donna che una volta avevo visto litigare furiosamente con un’altra passeggera; si deve mettere la mascherina, diceva e l’altra rispondeva che non aveva fatto in tempo e che mio figlio è un medico, ma l’episodio non era rientrato e avevano cominciato a dirsi che erano maleducate, ignoranti, ad alzare la voce. Stavolta invece non ha detto niente a nessuno. Mi chiedo se ad andarsene via sia stata la rabbia o solo se non abbiamo più il canale delle regole per poterla sfogare; se ci ignoriamo o se vorremmo solo avere un pretesto.
Due anni fa avevo ascoltato un’altra televita di Ivan Carozzi; era contenuta in un podcast dal titolo La Grande Incertezza e parlava di quei mesi durante quei mesi, dal di dentro, insomma. Probabilmente questo diario è stato scritto nello stesso momento del podcast, ma, quando avevo riprodotto le puntate in una delle tante passeggiate intorno a casa, non avevo la distanza che sento oggi nell’ascoltarle; tutto era intriso di speranza e paura e pathos – di una grande incertezza che speravamo fosse significativa. Io del resto, come tanti altri, mi ero fatta prendere dalla Grande Moralità e lo dico con un po’ di vergogna: scrivevo messaggini accorati agli amici, partecipavo a progetti, donavo soldi per obiettivi vaghissimi, soldi che penso di aver buttato via nel tentativo di sentirmi meglio.
Quando Ivan mi ha detto cosa avrebbe scritto per questo numero di Gua Sha, ho riflettuto se avesse senso o no pubblicare un pezzo che parlava di quel periodo lì, ma poi ho pensato che la questione non è mai l’appropriatezza del contenuto, quanto la scrittura. Rileggerlo oggi è un esercizio di critica letteraria per me, perché riesco a sentire la scrittura e lo sguardo di Ivan a prescindere dal tema – posso dire mi piace che inizi con questa immagine o che trovo quest’altra un po’ ricattatoria o un simbolo a cui non so dare un contenuto, ma posso farlo perché, per certi versi, la pandemia ha smesso di essere una metaforona che risucchia tutto e tutto rende degno di essere annotato. Ho sempre avuto problemi con le opere con un alto tasso emotivo, perché fanno saltare il banco e ti tengono lì incapace di andartene o di formulare un pensiero critico. Ivan posa lo sguardo sulle cose, rallenta il tempo, sembra saper abitare i suoi pensieri, possederli pienamente, cosa che rende organica la sua scrittura e che mi rende difficile sapere in anticipo cosa penserà di una certa cosa, come giudicherà quello che ognuno di noi sta scrivendo. Lo diceva anche Francesco qualche numero fa, Gua Sha come esercizio creativo.
– Sara Marzullo
La televita. Marzo 2020
di Ivan Carozzi
18 Marzo
Se la mano è stretta a pugno, l’epidermide si mostra liscia e tesa come una vela… ma è solo un inganno. Se la mano è stesa il dorso appare attraversato da grinze e increspature. Le nocche sono ruvide, secche e arrossate. È il risultato dei lavaggi col sapone liquido, da quando mi sveglio alle sette del mattino fino a prima di andare a letto. Insapono, spingendo le mani l’una dentro l’altra per aspergere la gocciolina di detergente. Le dita si accavallano in un balletto morboso, come se mano destra e sinistra fossero due creature che si bramano. Vado avanti contando fino a venti sotto un getto d’acqua calda. Arrivato a venti mi chino verso l’asciugamano.
Oggi la pelle delle mani è simile a quella delle mani di mia nonna, quando le asciugava nel grembiule dopo aver lavato pentole e piatti nell’acquaio di marmo della casa dove sono nato. In quella casa ho giocato, ho imparato a leggere e scrivere, e ricordo, un giorno mentre facevo i compiti, di aver visto un minuscolo ratto correre lungo il tubo di gomma della lavatrice.
Una volta asciugate le mani, la nonna si chinava e mi prendeva in braccio. Via Cairoli 16. Origine del mondo.
Alle ore 9.05, ascoltando la radio, il grido di una sirena. Alle ore 10.20, mentre apro il rubinetto e mi chino sul lavabo, il grido di una sirena. Alle ore 11.10, guardando il cielo soffice e azzurro alla finestra, il grido di una sirena. Alle ore 12.00, in coda al supermercato, il grido di una sirena. Alle ore 14.15, bevuto il caffè e posato il cucchiaio sul tavolo, il grido di una sirena. Alle ore 15.00, assopito nel letto, il grido di una sirena. Alle ore 15.50, aprendo l’oblò della lavatrice per infilarci giacca e pantaloni di un pigiama, il grido di una sirena. Alle ore 16.25, seduto in bagno, il grido di una sirena. Alle ore 17.50, al telefono con un amico, il grido di una sirena. Alle ore 18.10, pensando a un veliero, il grido di una sirena. Alle ore 18.40, mentre scrivo, il grido di una sirena. Alle ore 19.30, mentre una sirena grida, dico: sono fortunato e mi vergogno di tanta fortuna.
19 Marzo
Su Facebook intercetto un thread interessante. Si parla di un tic che avrebbe preso piede soprattutto nelle conversazioni vis a vis (quando avevamo ancora conversazioni vis a vis). In base a tale tic, dopo che X ha esposto il proprio pensiero, Y commenta dichiarando: “Ci sta”. “Ci sta” sembra una modalità pigra e rassegnata con la quale ci limitiamo a ratificare il pensiero altrui. Chissà da dove viene questa accondiscendenza… forse è conseguenza della stanchezza, della fatica, di uno sfinimento ontologico. Forse è figlia dello scetticismo. A Roma esiste una formula che prende il “ci sta” e lo intensifica. È lo “stacce”, esortativo. È un invito a prendere atto della realtà. È così, la situazione è data, non puoi farci nulla, puoi solo aspettare, resistere, sperare, tenere duro e soprattutto: accettare.
21 Marzo
Chiuso in casa, blindato, sepolto, confiscato, isolato, prigioniero, sequestrato, appartato, murato, esiliato, diviso, ritirato, protetto, allontanato, confinato, incarcerato, nascosto, prigioniero, detenuto, distanziato, rintanato, segregato.
24 Marzo
Con la scusa della spesa, intorno alle 11 di mattina attraverso il quartiere e raggiungo un piccolo frutta e verdura dall’aspetto clandestino, nascosto in una traversa stretta e infossata dove la luce del sole arriva di sbieco. Quando voglio avventurarmi mi prendo la libertà di raggiungere un altro fruttivendolo, che dista 500 metri dal primo, stando vigile nel caso passi una volante della polizia o una camionetta dell’esercito, perfino stuzzicato da questo nuovo gioco che consiste nel barare sul tragitto casa-supermercato, pur di godere del conforto di un po’ di libertà. Mi torna in mente un’immagine incongrua: Giovanni Pesce che nel 1945 si sposta da clandestino tra un settore e l’altro di Milano.
25 Marzo
Britney Spears ha scritto su Twitter che la ricchezza deve essere redistribuita.
In fila alle poste, in fila al supermercato. Immobili e depressi. Pietrificati. A un passo dal diventare statue.
Quando al mattino entro in bagno per pisciare, osservo riflesso sul vetro della finestrella le vite nella casa di ringhiera a fianco. Dedico il tempo della pisciata alla visione di questo quadretto rovesciato e tremolante, come se stessi guardando il lavoro di un videoartista in un museo. C’è il quarantenato insofferente che fuma una sigaretta appoggiato alla balaustra; c’è la quarantenata piacente in vestaglia che appoggia il sacchetto della spazzatura fuori dalla porta; c’è il quarantenato dal volto rasato e curato che accenna un movimento di ginnastica con la faccia rivolta al sole; c’è la giovane quarantenata che ha sistemato fuori dalla porta un piccolo tavolo pieghevole per prendere il caffè; c’è il gatto che si strofina ai piedi nudi della giovane quarantenata e c’è il quarantenato con le ciabatte e gli auricolari che parla al telefono, camminando avanti e indietro lungo il ballatoio.
In quella casa di ringhiera, so che vive anche uno scrittore. Non ci siamo mai incontrati di persona, ma è capitato che qualche volta ci siamo sentiti via mail per questioni di lavoro. Oggi per la prima volta ho incontrato per strada lo scrittore. L’ho visto mentre usciva da un negozio di alimentari con la borsa della spesa. Il marciapiede era deserto. L’ho fermato e mi sono presentato. Per un istante ha dovuto mettere a fuoco, non perché non sapessi chi fossi, ma perché doveva estrarsi dalla lunga catena di pensieri in cui ciascuno di noi è finito. Abbiamo parlato piantati in una casella a qualche metro di distanza. Aveva lo sguardo scoraggiato, annichilito, come quei pesci boccheggianti che vengono tirati su con la rete e poi rovesciati sul ponte di una nave. Dopo poco ci ha raggiunto la compagna di lui. Ci siamo presentati. Abbiamo proseguito a parlare rispettando le distanze. Separati a circa due metri l’uno dall’altro, abbiamo costituito un triangolo. È seguita una conversazione aperta e piacevole, accompagnata dalla consapevolezza lancinante di essere iscritti in una forma geometrica, anziché in una vicinanza fatta di calore e prossimità. La compagna dello scrittore mi ha riferito che la sera le capita di piangere. Non solo perché la sera è l’ora delle ombre e della solitudine, ma perché la sera è il momento dei bollettini, delle notizie, dei numeri.
La giornata era fredda e soleggiata. Sentivo la pelle delle mani, screpolate per i ripetuti lavaggi, spaccarsi e arrossarsi ulteriormente. Nonostante il gelo abbiamo proseguito a parlare, fino a quando non abbiamo cominciato a battere i piedi per terra. Quindi ci siamo salutati.
27 Marzo
Un amico architetto che vive a Roma, Roberto, mi telefona a metà pomeriggio, mi racconta come sta, parliamo a lungo, di tutto, della quarantena, del virus, della vita che cambia e cambierà, della famiglia, del cibo in tavola, del picco nella vendita di pulcini negli Stati Uniti, di tamponi orofaringei, di soldi, di economie personali e di lavoro, di autocertificazioni e decreti, di libri letti o da leggere e della difficoltà di leggere un libro o guardare un film perché qualcosa dentro è rotto o inceppato, di supermercati, di mascherine e guanti, dell’uscire di casa o non uscire di casa, di misure di cautela, di Bergamo, Valseriana e ospedali, di test sierologici, di disinfezione degli oggetti, di resistenza del virus sulla superficie del cartone e della plastica in particolare, e alla fine, di colpo, aggiunge: ti devo raccontare una cosa. Dice che un giorno è in casa, in quarantena, poco dopo pranzo, e all’improvviso sente un tonfo al di là della porta, sul pianerottolo, «come se qualcuno stesse traslocando», mi dice, «e gli fosse scappato di mano uno scatolone o un divano imbottito». Allora si alza dal tavolo e in ciabatte va vedere che cosa è successo. Quando apre la porta trova l’intero pianerottolo invaso da una stesa verde di pannocchie di marjuana. Non capisce. Si sporge per vedere lungo la tromba delle scale del bel palazzo costruito negli Trenta, verso i piani inferiori e poi su, verso i piani superiori dell’edificio. Tutto tace. Accenna qualche passo lungo le scale. Non c’è anima viva. Silenzio. Sono tutti chiusi in casa da due settimane. A quel punto torna nell’appartamento, prende un sacco, lo porta sul pianerottolo e aiutandosi con le mani e le braccia comincia svelto a riempirlo con la marjuana. Rientrato, si dirige col sacco di marjuana in bagno e lo pesa sopra una bilancia: mezzo chilo.
28 Marzo
Butto la pasta e cerco sulla scatola il tempo di cottura. Lo trovo: 14 minuti. Mi sembra un’eternità. Come passerò tutto questo tempo che ho davanti a me? E poi, io ho fame… Intanto ascolto la radio, un attore legge il diario di uno scrittore siciliano semianalfabeta. Penso che forse d’ora in avanti dovrei abituarmi a comprare un tipo di pasta che cuoce più in fretta. Magari dei normali spaghetti, senza intestardirmi a cercare tipi di pasta più ricercati e dal tempo di cottura più lungo. Lo penso ogni volta. Apparecchio. Mi verso un bicchiere di vino, assaggio, dopodiché guardo l’orologio e… sorpresa: ancora un minuto ed è già tempo di scolare. Ogni volta è così. Sembra un’eternità, una montagna da risalire, un tornante dopo l’altro, e poi alla fine, invece, l’eternità è passata e neppure me ne sono accorto.
30 Marzo
Apro la finestra del bagno e ritrovo il silenzio delle settimane precedenti. Eppure non è un silenzio integrale. Non è assenza di suono. Sullo sfondo permane una sorta di vibrazione eterica. Anche la notte. Questa vibrazione non è la sommatoria dei rumori minuscoli prodotti in ogni singola casa, da ogni corpo, da ogni articolazione, da ogni elettrodomestico, dai pochi veicoli che si muovono per strada, ma è uno strato sonoro basale e appena attingibile, sul quale, per esempio, la paura può modellare di tanto in tanto il suono della sirena di un’ambulanza, lasciandomi credere che un’ambulanza stia davvero attraversando la città. Ma non è così. E allora, che cos’è quella vibrazione eterica, se non è silenzio? È un livello primo e irriducibile del suono. Mi piace e ogni volta mi affaccio alla finestra per ascoltarne ancora.