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Edoardo Vitale ha scritto un podcast che parla di lavoro (cinque puntate, scritto e condotto con Priscilla De Pace, qui). Il podcast prende ispirazione da un libro, Il lavoro non ti ama, scritto dalla giornalista americana Sarah Jaffe. Una decina di giorni fa Sarah era in tour in Italia e con lei ho partecipato a Torino a una doppia presentazione: Sarah Jaffe con il suo libro e io con il mio, piccolo, più o meno sessanta pagine, che uscirà a giugno e si chiama Fine lavoro mai. Il libro di Sarah Jaffe è un’inchiesta storica sul mondo del lavoro e una genealogia di una certa idea del lavoro. Sarah parte da un approccio intersezionale, dove l’analisi non prescinde mai dalle categorie di classe, genere ed etnia. È un libro militante che si chiude con un appello accorato e ben otto pagine di ringraziamenti. Ho molto apprezzato il libro, anche se leggendo, confesso, ho avvertito fatica. Non mi riconoscevo nel tono assertivo ed engagé. È un fatto epidermico. Tantomeno mi riconoscevo nella pretesa certezza e chiarezza con cui la teoria intersezionale interpreta fatti e vissuti. Ci sono parole e termini che risuonano dentro di me vuoti e innescano memorie di figure e fenomeni dell’attivismo per i quali non smetto di provare un costante disamore. Mi ritrovo più facilmente e simpateticamente in ciò che Edoardo ha scritto per Gua Sha e nella spirale di non senso che il suo testo prova a descrivere, senza tentare di coinvolgermi in un assalto al cielo che io non ritengo più possibile. La realtà non va combattuta, ma piuttosto attraversata, sofferta e vissuta. Vivere, soffrire, attraversare il ***** brulicante dell’ipercomplessità. È una verità dell’esistenza alla quale sono giunto esistendo (e di cui non voglio convincere nessuno). Che senso ha dare l’assalto al cielo se il cielo è un iperoggetto?
Se il lavoro non mi ama, neppure mi sento coinvolto dalle avance di certo attivismo. Parlare, uscire di casa, vedersi, incontrarsi. Ieri ho ricevuto una email di lavoro da una persona che non ho mai visto. Diceva: troviamoci per bere una cosa, parliamo e ti spiego tutto, ma vediamoci in un bar, perché dopo due anni di call, ho sete di realtà e di incontri. Ecco, questa sete e nient’altro.
– Ivan Carozzi
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Ho scritto un podcast che parla di lavoro
di Edoardo Vitale
Ho scritto un podcast che parla di lavoro. Da quando è uscito sono stato contattato almeno una decina di volte tra telefonate e messaggi per parlare pubblicamente – e a sproposito – di lavoro. Il giornalista di un quotidiano mi ha chiesto un commento per il Primo Maggio. Che tipo di commento? ho chiesto. Un commento in generale sul lavoro, il precariato, mi ha risposto il giornalista. Ho riattaccato. Mi è stato chiesto di intervenire in una radio locale per parlare delle parole di Alessandro Borghese sugli stipendi dei camerieri, ho declinato spiegando che non avrei avuto nulla di rilevante da dire. Qualche settimana dopo, lo stesso radiocronista mi ha chiesto di intervenire in trasmissione a seguito delle parole di una stilista che ha detto di voler assumere solo persone disponibili 24 ore su 24, ho risposto che saremmo finiti inevitabilmente a parlare di proiettili e di quanto la loro forma sia inequivocabile, proprio come uno se l’aspetta. Ha riattaccato lui. Un uomo sulla sessantina mi ha scritto su LinkedIn per invitarmi a un festival di Risorse Umane per parlare di Grandi Dimissioni. Mi sono ricordato di rispondere quando il festival era già finito; lì per lì ero stato distratto da un lungo post del CEO di non so quale azienda, che parlava dell’arte del Kintsugi allegando lo screenshot di un’email che aveva ricevuto dal se stesso del passato quando ancora non era nessuno. Il social media manager di un’agenzia creativa mi ha scritto un messaggio privato su Instagram complimentandosi con me per aver intercettato «la wave del lavoro, fonte inesauribile di contenuti, bisogna fare i contenuti, i contenuti ci danno da mangiare, tutta questa cosa del lavoro, del big quit, è un hot topic».
In questo momento sulla mia board di Google Chrome ci sono 76 schede aperte. C’è un articolo intitolato “The app that monetized doing nothing” che però si è rivelato un lungo branded content su un’app di meditazione, un articolo sui “codisti”, ovvero persone che fanno la fila per conto di altri in cambio di denaro, un articolo su un’organizzazione che paga 200 dollari per ogni libro letto, uno sulle ragioni di marketing per le quali gli orologi nelle pubblicità segnano sempre le 10 e 10, un altro sulla classe creativa nel fashion. In questo momento sul mio account di Pocket – un’app per salvare contenuti da leggere in un secondo momento che mi costa qualche decina di euro all’anno ed è sincronizzata su tutti i miei dispositivi – ci sono salvati più di duemila articoli. Più o meno oscillano tutti tra i dieci e i quindici minuti di lettura. Significa che in media ci sono ventimila minuti di articoli da leggere salvati sul mio Pocket. Ventimila minuti equivalgono a trecentotrentatré ore, che equivalgono a circa quattordici giorni di contenuti da leggere, i contenuti che ci danno da mangiare. Senza contare quelli sulla board di Google Chrome. Senza contare che leggo molto lentamente e non rispetto mai i tempi di lettura calcolati dall’algoritmo sul ritmo di qualcuno molto più bravo di me a comprendere l’inglese.
Sono venuto a Garbatella a scrivere, la Casetta Rossa è chiusa e mi sono seduto sulle panchine del Parco Cavallo Pazzo. Ci sono dei ragazzini di dodici anni che giocano a pallone di fronte a me. Ho preso nota di alcune loro frasi: «…non devi fargli capire che sei un genio incompreso, altrimenti diventi un cameriere disadattato che senza le mance non riesce ad arrivare neanche a fine mese», «alla fine aveva ragione Steve Jobs», «Steve Jobs è quello che ha detto “non è colpa tua se nasci povero, è colpa tua se muori povero”». Stavo lì col mio Macbook poggiato sulle ginocchia, mi sono sentito in qualche modo chiamato in causa e accerchiato, sono corso via.
Tornando a casa, sulla Cristoforo Colombo, ho visto una maxi affissione pubblicitaria di una multinazionale dell’energia che dal giorno alla notte ha cambiato nome e fatto rebranding e greenwashing. Il copy diceva qualcosa tipo “inizia la stagione delle scelte consapevoli”. Consapevoli di essere dei pezzi di merda, ho pensato, ho riso da solo al mio pensiero e ho continuato ad ascoltare il nuovo disco dei Fontaines DC, che mi sta piacendo: baby, come on get stoned, get stoned, get inside it, inside it, inside it, inside, get along, get along, get alone, get alone, was it the weed or the moment that stoned ye?
La notte successiva ho sognato di licenziarmi, mi sono svegliato in preda al panico e per alleviare il senso di colpa, visto che non riuscivo a riprendere sonno, ho acceso il computer e mi sono messo a lavorare in maniera disgregata, frammentaria e frenetica. Ho recuperato email arretrate, ho portato avanti dei piani strategici fallimentari, ho editato i contenuti che mi danno da mangiare, ho letto un articolo su una rivista di fashion e lifestyle intitolato WTF is rising inflation and what does it mean for young people? con cui ho smaltito cinque delle migliaia di minuti di lettura che sopravviveranno alla mia morte. Avrei anche proseguito, se non fossi stato distratto da una polemica sull’annuncio di lavoro di una rivista culturale in cerca di un responsabile della comunicazione che chiede “forte desiderio di cambiare il mondo attraverso la cultura”. La polemica verte sul fatto che al responsabile della comunicazione viene chiesto, in sostanza, di saper fare un po’ il grafico, un po’ il social media manager, un po’ il community manager, un po’ digital PR, un po’ il project manager, un po’ l’editor, un po’ l’ufficio stampa, un po’ il copywriter. Mi ha fatto tornare in mente il Racconto dell’Uomo Start Up che avevo iniziato a scrivere qualche anno fa. L’idea era quella di raccontare la storia di un individuo che si spacciava formalmente per una start up, in termini burocratici e con i suoi clienti, ma in realtà svolgeva da solo tutto il lavoro. Rispondeva al telefono cambiando voce, utilizzava diversi indirizzi email, diceva “grazie, giro tutte queste utili informazioni ai designer” ma il designer era lui. Diceva “questo è un aspetto che valuterete con il commerciale” ma il commerciale era lui. Diceva “metto in copia il nostro social media manager che seguirà questo progetto”, ma il social media manager era lui. Non l’ho mai finito di scrivere, perché era un’idea di merda, al massimo ci faccio un contenuto.
Il ***** brulicante dell’ipercomplessità – Gua Sha n. 21
L’uomo Start Up è il mio capo con cui per fortuna ci ho poco a che fare!