Leggendo il pezzo di Carmen mi sono resa conto di una cosa a cui effettivamente non avevo mai pensato: detesto le passeggiate romantiche. O meglio: detesto camminare lenta, e odio chi cammina lento. Generalmente la passeggiata romantica prevede un’andatura rilassata, e se c’è un’altra cosa che non sopporto è essere costretta a rilassarmi. Per spirito di amicizia mi sforzo di adattare il mio passo a quello di amici e amiche che non ci tengono a marciare quando si tratta di andarsi a mangiare un gelato o portare a spasso il cane, ma nelle relazioni sentimentali non ho mai avuto a che fare con uomini che camminassero lenti. Anzi, altra epifania: probabilmente la velocità con cui un uomo cammina, mangia e parla è un fattore determinante nel farmi innamorare. Per non parlare della velocità con cui un uomo beve. Voglio che finisca il bicchiere prima di me. Voglio sentirmi in difetto su quello, non riuscire a stargli dietro. Arrancare mentre lui ha già perso il conto dei bicchieri (io no, perché ci tengo a contarli. Ci tengo a contare tutto). E poi amo le camminate da sbronzi, ma non quei finti siparietti da aspettando Godot metropolitani dove due tizi si sostengono a vicenda barcollanti. Non ci tengo al cameratismo pittoresco. Amo camminare da sbronza a passo spedito, lucida e molle nel corpo e nei pensieri, accanto a un uomo che cammina veloce, che attraversa col rosso e mi prende per mano se io non me la sento.
– Veronica Raimo
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Passeggiare
di Carmen Barbieri
Quando penso a noi due mi tornano alla mente scene di film francesi con coppie che passeggiano in piano medio, impresse in un movimento retorico che lo sceneggiatore gli fa compiere per restituirci un’ordinarietà tra innamorati e anticipare al nostro inconscio che quei due lì, delle cui vicende ci stiamo interessando dalla prospettiva di un carrello che li precede di pochi passi, finiranno male, (malissimo).
Stanotte ti ho sognato, sei venuto a dirmi che Marielle non vivrà più di altri tre, quattro anni. E poi mi hai suggerito di scrivere un libro sulle passeggiate di coppia nella cinematografia transalpina. Nonostante un’amica mi abbia rivelato che Louis Garrel visto dal vivo manifesti fianchi larghi diserotizzanti, (nonostante la notizia mi abbia freddato in una delusione cocente per un’intera giornata), continuo a pensare sia uno degli attori col più alto talento da passeggiatore attualmente in circolazione. È talmente in parte come passeggiatore che anche il padre, il regista Philippe Garrel, lo mette a passeggiare. In una scena de La jalousie, Louis interpreta Louis e si innamora di Anna Mouglalis che invece interpreta Claudia. A quattro minuti e quarantotto secondi dall’inizio della faccenda, Louis e Claudia già si producono nel catabasico passeggio. Alla domanda di Louis “Vuoi rientrare a casa?”, Claudia risponde “No, mi piace camminare con te”. Claudia prende tempo, è un personaggio francese, dalla filmografia locale trae insegnamenti e dunque sa che alla stasi di un interno corrisponde solo lo spazio necessario al movimento dell’abbandono. In Francia funziona così, se stai in casa ti lasci, se esci capace che il vulìo di chiudere il rapporto ti passa, se soltanto uno dei due apre la porta e rompe l’equilibrio dello spazio condiviso per andare a passeggiare con qualcun altro – allora è vero amore.
Da quando non siamo più quelli che mi è sembrato fossimo, ho passeggiato con alcuni altri uomini. In passeggiata va sempre molto bene tutto, anche con quelli che del cinema (e di tutte le sue implicazioni sul piano dell’immanente co-esistere tra soggetti che si attraggono sessualmente) se ne fottono altamente. Nella maggior parte dei casi a proporre la passeggiata sono io; non ho voglia di sedermi in un locale o su una scalinata per rispondere a domande stupite su quanto sia poco napoletana nella fisicità e dunque avanti tutta con l’investigazione profonda sul dove risieda la mia più autentica napoletanità. Un mese fa ero a Napoli per partecipare a un convegno su letteratura ed empatia, la moderatrice nel presentarmi ci ha tenuto a precisare alcuni dati biografici sottolineando che da vent’anni non vivo più “lì”. Al termine dell’evento uno degli organizzatori mi ha chiesto: “Mò tu stai fuori da tanto tempo e me lo puoi dire con cognizione di causa. È vero o non è vero che la pizza e il caffè a Napoli sono più buoni principalmente per un fatto d’acqua?”. Dato il contesto, mi sono replicata in tutta una serie di cliché regionali in cui non mi riconosco minimamente, mimando una nostalgia per folklori vari nei quali risiede buona parte della forza centripeta che mi tiene lontana da “lì”. Tutto quello che di quella città mi appartiene non è instagrammabile (e dal momento che tentare di eliminarlo da quella che sono è impossibile tanto quanto insistere a cancellare i nei che mi costellano il corpo con una gomma pane), la dinamica della passeggiata impedisce di molto discorsi alla #terramia di letteraria e musicale tradizione. Perché di fatto la passeggiata impegna e stanca, ti colloca in un orizzonte di possibilità e di menzogne molto più arduo da sostenere se ti fermi e inizi a guardarti negli occhi. Come ti dicevo, fintanto che passeggiamo si gettano premesse per ottime relazioni, tranne una volta quando mi è capitato di tirarla per le lunghe con uno scrittore che alla quarta passeggiata non ne poté più e all’improvviso mi spezzò i passi per baciarmi e contemporaneamente accertarsi, toccandomi i pantaloni, che fossi una donna. (Pare che una certa fisionomia più preraffaellita che partenopea getti nello scompiglio alcune tra le penne più illuminate della penisola).
Ci sono stati anche dei compagni di passeggiata napoletani aderenti alla setta degli incatenati allo scoglio natìo. Hanno procrastinato la loro presenza al mio fianco con argomentazioni tendenti a dimostrare una mia colpevole estraneità al luogo d’origine. A tutti loro avrei voluto rispondere come il poeta che scrive di quanto la terra appartenga soltanto a chi l’ha abbandonata. Ma presagendo l’effetto boomerang di una simile dichiarazione, ho preferito interrompere le camminate senza echi letterari. (Sto scrivendo un romanzo in cui i personaggi raccontano lavori che non intraprendono. Credo di aver sostituito la parola amore con lavoro. Qualcosa del genere).
Torno adesso dal Duse, sono stata a vedere l’esame di fine corso d’accademia di Luisa (che non è la versione italiana femminile del maschile francese Louis, che, invece, in italiano diventa Luigi e perde buona parte del suo fascino. Già solo a pensarci ci si arriva facile all’evidenza: Luigi non è in grado di passeggiare come Louis. Se aggiungiamo l’elemento dialettale: a Napoli Luigi diventa Gino o Giggino: ecco che la qualità onomastica sposta subito il personaggio su altre metanarrazioni). Luisa si diploma regista con un allestimento de L’Antigone di Jean Anouilh. L’ultima volta ero entrata in quel teatrino nel 2010, nel periodo in cui ci stavamo lasciando per la prima volta. Anche allora andai a vedere un saggio di fine anno, ma non ricordo su cosa e con chi. Ricordo però che in quel mentre tu stavi passeggiando a Tivoli con una tua allieva della scuola di fotografia.
(Comunque) Antigone se la batte con Napoli in termini di riscritture e di cliché; sono d’accordo con Massimiliano Civica quando sostiene che è un errore di interpretazione considerare la tragedia sofoclea come una dramma politico. E poi in quanto a camminare, gli attori teatrali hanno un problema serio, cioè non lo sanno fare. Non lo sanno fare con la stessa protervia autenticità di Louis Garrel e dei potenti mezzi del cinema francese. Lo so, non dovrei usare parolacce come “autenticità” quando si parla di amore e di arte. Fatto sta, però, che ci siamo preoccupati moltissimo di come muovere le mani in scena, dove non appoggiarle, come non agitarle, mentre alle gambe e ai piedi nessuno ci pensa, nessuno gli riconosce la dignità di cui abbisognano. (Parlando del teatro di parola, non iniziare a tirarmi fuori esempi dal teatro di ricerca soltanto per il gusto di contraddirmi. Dove sono le gambe di Lady Macbeth mentre strofina le mani insanguinate? Perché Cechov non indica la corsa di Nina dalla scrivania alla porta di quanti passi, numero preciso, si compone? Senza il numero esatto non si capisce se sia davvero una corsa o un’andatura spedita. Non essendo scalza, diamo per assodato che indossi un tacco comodo, dunque, altrimenti come farebbe a correre? Cosa fanno i piedi di Elena mentre dice a Menelao: “Ahimè, vai verso una storia amara, mi chiedi un inizio amaro”?). Non a caso l’Antigone di Anouilh si apre con i personaggi piantati in scena come alberi che il prologo fattosi personaggio abbatterà uno a uno.
Luisa è stata brava, anche se mi ha fatto pensare a quanto poco abbiamo passeggiato noi due, tu e io intendo. A Carmela che ogni due giorni si chiarisce con il fidanzato, ma a cui restano ogni volta molte, nuove, domande, dovrei forse suggerire di passeggiare insieme a lui di più. A Marilena che non sa se andare via da Roma per prendere casa in provincia con l’uomo che ama, forse dovrei consigliare di non incartarsi in nessun impegno immobiliare e di stare all’aperto, producendosi in lunghe, lunghissime, peregrinazioni con lui lungo tutto il perimetro terrestre. A te che fingi di non pensarmi, vorrei chiedere quante volte ancora dovremo lasciarci prima che questo accada davvero. È che abbiamo passeggiato troppo poco, forse dovremmo vederci ancora una ed ultima volta – e passeggiare soltanto. Dando per buono, già registrato e post-prodotto, tutto il resto dello script. Sai, stanotte (per la prima volta nella vita) sono d’accordo con Creonte: “Niente è vero se non quello che non si dice”.