C’è invece un’emulsione di stati d’animo, un’attitudine alla confessione secondo una linea incerta tra verità e “romanzo”, sincerità e dissimulazione, confessione e finzione, depistaggi e incanalamenti, procedure aventi forse la funzione di una seduta psicoanalitica tutta personale con flusso di coscienza incorporato, puntando al presupposto o speranza che la mera esposizione dei fatti si innalzi a metafora, a rappresentazione collettiva, a letteratura.
Oggi leggo il pezzo di Sara Marzullo per Gua Sha e poi una recensione sul mio libro che contiene la frase qui sopra. Mi fa ridere la coincidenza. Scopro di puntare al presupposto o alla speranza che la mera esposizione di fatti si innalzi a metafora, e quindi di conseguenza a rappresentazione collettiva e letteratura. Mi sembra un giusto contrappasso: ho cercato di scrivere un libro contro la metaforizzazione di una storia qualsiasi e mi ritrovo con un’accusa di tentato metaforone non riuscito.
Cito un altro pezzetto:
Ma quello che sembrava un romanzo di formazione ripiega subito nella raccolta random man mano che emergono, di semplici memorie autobiografiche. Niente di strutturato insomma come speravo all’esordio.
È un interessante approccio critico: si spera nella struttura, nella metafora, nella griglia narrativa, non trovando niente di tutto ciò, anziché constatare una personale delusione si arriva a dedurre l’altrui fallimento di intenti. La “raccolta random” non può essere un intento.
Mi domando se io però io utilizzi lo stesso approccio in maniera inversa. Guardo i film e ci rimango quasi sempre male perché non finiscono nel punto in cui io li avrei fatti finire, cioè in mezzo al nulla. Leggo i romanzi saltando le pagine per avere la percezione che saltino anche i nessi. Mi resta comunque la sensazione che ci sia un’altra storia simbolica che scorre in filigrana da quando la parola filigrana è cominciata ad andare di moda. Cerco di schivare la filigrana.
Ho capito questa cosa, che non basta dichiarare apertamente: “Non voglio essere emblematica”, dal momento che con buona probabilità quella dichiarazione avrà il tono sommesso del contenuto che dichiara e quindi non verrà nemmeno percepita. Oppure potrebbe andarvi ancora peggio: verrà percepita in filigrana. Non è il testo a essere emblematico, è il sottotesto. Se unisci i puntini un disegno deve comparire per forza. E se è un “ammasso random” di puntini? Non importa.
E quindi che fare?
Niente.
Un’altra dichiarazione impossibile. “Non voglio fare niente”.
Non so perché non veniamo mai credute.
– Veronica Raimo
My first book!
di Sara Marzullo
Qual era la storia? Che scherzando si può dire quasi tutto?
In uno dei primi numeri di questa newsletter, ho scritto di una coppia che sembrava la messa-in-scena di una coppia, così meta-tutto che si offriva volontariamente a una riflessione sulla fenomenologia dei primi appuntamenti. Così appariscente da essere ridicola, così poco probabile da essere quasi credibile, la coppia in questione era quella formata da Julia Fox e Kanye West.
I due si sono mollati subito dopo, non senza aver lasciato dietro di sé una serie di eventi incomprensibili le cui dinamiche risultano faticose e irrilevanti. Kanye è ancora innamorato di Kim? Lei è felice col comico dal cuore buono? DeviantArt e Avril Lavigne stanno per tornare di moda?
Se la tua vita è una serie televisiva, si adatterà naturalmente ai cliffhanger e ai finali di stagione. Kanye non era uno dei personaggi principali del reality delle Kardashian, ma la cosa veramente impressionante di questo carrozzone chiamato intrattenimento contemporaneo è il numero di personaggi secondari che riesce a produrre; non tutti sono ben scritti, alcuni sono solo funzionali allo sviluppo della trama, di altri ogni tanto abbiamo indizi che torneranno più avanti, altri lasciano il segno – qualsiasi cosa voglia dire – e hanno diritto a degli spin-off.
Non so se Julia Fox appartenga davvero all’ultima categoria, ma è certo che ce la sta mettendo tutta a sembrare interessante; rilascia interviste, lancia mode improbabili (un sacco di jeans, un sacco di eyeliner) il cui sottotitolo è pazza ma bòna, che può andare nella direzione installazione d’arte o ragazza perduta (dipende da chi scrive la storia, come ho scritto in Girls - Propp & Props).
Una delle ultime novità, oltre a parlare con uno strano accento di cui non si capisce bene la provenienza (Uncut Gems diventa Ancah Jams!) e farsi fare l’imitazione da tutti, è che sta scrivendo un libro:
“Non voglio rivelare troppo, perché sono molto superstiziosa e non mi piace parlare delle cose prima di averle concluse. Ma fino ad ora, se posso dirlo io, è un capolavoro… all’inizio era un memoir, ma adesso è tipo il mio primo libro, capisci?”
Non voglio dare troppo credito a Julia Fox, ma sento che in questa frase c’è una intuizione di critica letteraria troppo puntuale perché la lasci scivolare via. All’inizio era un memoir, ma adesso è tipo il mio primo libro. L’industria letteraria chiede che raccontiamo le nostre storie, che aderiamo al nostro passato, qualunque cosa sia per farne profitto. Tuttavia, per via dell’inflazione, perché queste storie sono ovunque – i social sono storytelling? le serie sono storytelling? l’UX è storytelling? – non è più sufficiente avere qualcosa da raccontare, per quanto incredibile e unico sia. Serve un evento che precede il racconto e il passato del passato deve contenere qualche sorta di elemento che illumini tutto quello che succede dopo; come ha detto un cliente a una mia amica art director: vogliamo l’elemento WOW!
Che deve essere un evento iniziale, un punto focale, una metaforona che tenga insieme tutta la storia, che riemerga capitolo dopo capitolo, mentre si passa da un argomento all’altro, da una branca di conoscenza all’altra. Mi è stato detto anche da un editor non troppo tempo fa, non con queste parole, ma quasi: usa-la-tua-storia, mi ha suggerito, fanne-un-fil-rouge! Mettici dentro tutto, ma rendilo significativo!
Così finisce che tutte le sinossi dei libri sembrano dire che si attraverserà la scienza, la letteratura, per arrivare alla fisica molecolare e alle scienze sociali, raccontando la propria vita (o è viceversa?). Ogni libro sembra contenere questa traccia: nella performance d’arte vista in un museo in un pomeriggio di pioggia con un’amica ritrovata riecheggia la lezione di biologia del professore del liceo di cui non si è capito tutto, ma di cui abbiamo un ricordo distinto, e tutto questo riporta al disco regalato dalla madre al padre per un Natale che definiremo triste ma cruciale, insieme alla scoperta dei raggi X da parte di Röntgen raccontata attraverso la prima lastra della mano della moglie… Non mi sono inventata nessuno di questi dettagli, magari non li ho trovati tutti insieme, però… Un tempo avevo trovato intelligente definire un libro un arcipelago, adesso mi sembra più come dire che questo libro andrà bene per gli appassionati di birdwatching ma anche di musica d’avanguardia e, chissà, anche per i fan della letteratura russa!
Non ti sembra che la Storia del mondo e la tua storia coincidano, accadano alla stessa velocità? Mi ha chiesto una volta un’amica – era seria! La caduta del governo come simbolo della fine non dell’Occidente ma della propria storia d’amore, un disastro naturale in Cina come metafora della scomparsa ineluttabile del proprio passato… C’è lo scrittore che trasforma la balbuzie nella metafora dell’ineffabilità delle cose, la poetessa per cui la cecità è uno sguardo più a fondo, la distruzione di una scuola, la fine dell’umanesimo…
Anche qui, se riconoscete qualcosa è esattamente quello di cui sto parlando! Forse dovrei uscire dalle allusioni, ma ultimamente le discussioni sui libri mi mettono così di cattivo umore, che rischierei di fare danni – magari potrei dire ecco la newsletter che mi ha cambiato la vita!
Il punto è che tutto è così significativo che non esiste altro che significato dappertutto – e più si riesce a essere specifici nella metaforona, più tecnico è il riferimento, meglio è. Non è un’immagine, è una metafora! Guarda non è un romanzo, è un poema! Pare che queste persone osservino ogni interazione con uno sguardo poetico ed estatico, perché magari prima o poi potranno farne un libro. Sempre che qualcuno non glielo rubi prima!
Perché accettiamo queste stucchevoli conclusioni da tema di terza liceo senza vergognarci? Diventare adulti non aveva a che fare con il riuscire a tenere insieme l’incongruenza, l’assenza di significato, parti irriducibili? Perché lo storytelling ha trasformato tutto in un libro young adult?
In Connessioni Kae Tempest vuole spiegare perché la letteratura è uno scambio, è creazione di legami: se scrivo e nessuno legge, il libro non esiste, se la poesia non incontra il pubblico, non esiste, viviamo tutti insieme su questo pianeta e siamo interdipendenti. È il mio lavoro da vent’anni, spiega. Che dire se non che ha ragione?
Connessioni non è il suo primo libro, come per Julia Fox; gli riconosco una sua intelligenza e tutti i limiti di un saggio breve che vuole dimostrare una tesi, ma da quando l’ho letto la cosa a cui continuo a pensare è quanto Tempest si impegni per tenere tutto insieme e renderlo, insieme, significativo, emblematico. Connessioni è costellato di ricordi del primo tour (non sapevamo accendere il riscaldamento! Ma mentre eravamo in tour, il mio libro è diventato vendutissimo), dell’incontro con un homeless (i miei colleghi pensano che siano tutti pericolosi, ma io ci ho parlato e ne è venuto fuori che è un appassionato di poesia!), della scoperta di Jung prima di un reading (il Libro Rosso mi ha cambiato la vita al punto che mi stavo per scordare di fare la mia presentazione!). Così dalla letteratura passiamo all’attivismo e alla psicologia, del resto siamo tutti uomini del Rinascimento, non conosciamo la differenza tra matematica e chimica e poesia.
Nessuna di queste opere è davvero complessa, difficile o incomprensibile: non c’è bisogno di essere esperti di nessuna delle cose di cui parlano (del resto non lo sono neanche gli scrittori!). Non penso di sapere qualcosa di più di Jung, se non per aver letto qualche citazione fuori contesto, ma questi riferimenti sono quasi solo decorativi – l’obiettivo è la rassicurazione che tutto, ma proprio tutto, ha un senso nel quadro generale delle cose, che la propria vita è una miniera infinita di materiale da cui attingere, che si può trarre una lezione da quasi tutto e che la lezione è:
va tutto bene, tutto fa parte di un grande schema delle cose, tutto è in connessione. E che anche tu puoi soffrire con l’autore, perché tanto il bene, il senso, il giusto trionferà, e tutto si trasformerà in una bella metaforona.
(Quando Aristotele teorizzava la necessità della catarsi, forse si immaginava qualcosa di più complesso di così, no?)
È una spinta a estrarre senso dal proprio vissuto che mi fa ammattire, forse, perché non mi sembra accordarsi con l’incomprensibilità e persino la medietà dell’esistenza – una forma di accettazione del mondo che mi sembra stare al cuore dell’identità adulta; ma forse ho solo davvero troppi problemi con il tempo lineare e l’incredibile capacità di fare a meno di finali solidi, che mi porta ad abbandonare film e libri sul più bello, prima che tutto diventi un a-posteriori o perché per me niente è davvero a-posteriori.
(Quando mi innervosisco troppo penso a questo passaggio di Niente di vero. Ciao Veronica!)
“So quanto fosse maniacale mio padre con quella macchina, come con tutto il resto, ma la volvaccia non mi fa pensare né a lui, né a Ventotene, né ai litigi tra i miei col sottofondo di Mina o Mia Martini all’autoradio. Non mi fa pensare a nulla. Nemmeno ai miei ricordi. I viaggi con A. o gli scatoloni caricati dentro quando sono andata via di casa. Penso solo che è la volvaccia e che chiunque può prenderla e dimenticarci qualcosa [...] penso che continuerà a invecchiare e il grigio antico diventerà ancora più antico, una patina di deterioramento che non si nutre di nostalgia, e che poi se ne andrà in malora [...]. Vorrei tanto che tutto il passato funzionasse così”.