Provo nei confronti delle mie foto su internet lo stesso fastidio provato da Veronica Raimo, quando scrive a proposito di una «foto che compare accanto al mio nome quando mi googlo». Poi un giorno è successa una cosa strana. Un amico mi manda su WhatsApp una schermata Google, e mi scrive: «Ho googlato ‘Germano Maccari’ e guarda che cosa ho trovato». In sostanza, digitando su Google ‘Germano Maccari’, non veniva fuori una foto di Germano Maccari, ma una foto della mia faccia corredata da queste informazioni: «Germano Maccari è stato un brigatista italiano. Wikipedia. Nascita: 16 aprile 1953, Prenestino-Labicano. Morte: 25 agosto 2001, Rebibbia». Non ho idea di come sia potuto accadere. Ho googlato a mia volta «Germano Maccari» e in effetti ho riscontrato che Google mostrava in risposta una mia foto. Ora non è più così, ma tempo fa per qualche mese Germano Maccari ha avuto il mio volto. Maccari, in effetti, non mi è per niente estraneo.
Nel corso del tempo mi è capitato di riascoltare le sue deposizioni in aula, specialmente il confronto con la Br Adriana Faranda. Faranda lo accusa di aver fatto parte del commando che ha rapito Moro. Maccari, che ha alle spalle una vicenda giudiziaria molto avventurosa, da principio nega, giura la sua innocenza, ma Adriana, che è una sua vecchia amica, lo incalza, lo stana, lo spinge a fare i conti con sé stesso, sembra quasi una fidanzata che è lì accanto a te stesa sul letto e con voce piana e decisa vuole farti ragionare; fino a quando poi, nel 1996, Maccari confessa al magistrato: Sì, sono stato uno dei carcerieri di Moro. Ho ascoltato e riascoltato su YouTube e sull’archivio di Radio Radicale lo scambio tra Maccari e Faranda. In particolare tutta la parte in cui Maccari racconta della sua vita e della sua formazione nel quartiere Prenestino, e ogni volta ho pensato: questo è un uomo, questa è una storia tragica, questo è un libro vivente. Devo averlo pensato in modo molto forte e qualcuno, quel nuovo qualcuno che è la rete, deve averlo sentito.
– Ivan Carozzi
Incartarsela
di Veronica Raimo
Nella mia strada ci sono tre cantieri aperti. Non stanno semplicemente facendo dei lavori di ristrutturazione, stanno abbattendo e ricostruendo degli edifici da zero. La notte vado a dormire sapendo che mi aspetteranno ore di insonnia, il giorno mi sveglio sapendo che mi aspetteranno ore di rumore incessante.
Quando esisteva ancora il cartaceo de L’Essenziale avevo scritto il diario della settimana, e venerdì 7 gennaio 2022 diceva così:
Davanti a casa mia c’era una villetta a due piani dove abitava una signora anziana perennemente affacciata alla finestra a commentare l’andamento dell’universo con chiunque passasse per strada, mentre il suo anziano marito era impossibilitato a parlare attaccato alla bombola dell’ossigeno. Non so che fine abbiano fatto loro due, né se siano ancora in vita, ma non abitano più lì perché la villetta è stata comprata da un aitante guru della mindfulness che ha continuato a commentare l’andamento dell’universo affacciato alla finestra dispensando precetti al cellulare. Ora il guru ha deciso di radere al suolo la villetta per costruirne una più grande col superbonus 110. Una Dropsie Avenue contemporanea. Sono mesi che gli operai picconano l’edificio, svegliandomi tutte le mattine – comunque sempre meglio che sentire le telefonate del guru – e oggi è passata la ruspa per finire la demolizione. Cerco di non leggerci dentro nessuna metafora, ma se esco di casa mi si para davanti una distesa di macerie.
Da allora le macerie non ci sono più, in compenso sono nati i due nuovi cantieri. Qualche giorno fa il cantiere del guru della mindfulness stava producendo un rumore lancinante, come di una sega che tagliava il metallo. Probabilmente era una sega che tagliava il metallo.
Visto che erano le 14:30 sono uscita incazzata e baldanzosa per fare il mio sbrocco civile e dire che a quell’ora era inammissibile un casino del genere. Ma ad aspettarmi in strada c’era il guru in persona. Si è avvicinato col sorriso e si è presentato. Mi ha teso la mano. Ce la siamo stretta. Poi si è preso la sua rivincita: “Hai detto che era meglio sentire i rumori che sentire la mia voce, e adesso incartatela”.
Nessuno aveva mai usato con me quell’espressione, forse non l’avevo mai sentita. Conoscevo il “prendi e porta a casa”, ma “incartatela” no. E mi sembrava ancora peggio. Più fastidiosa, e quindi più efficace. Ho visualizzato questo bolo di frustrazione incartato come un arancino dentro la carta antigrasso. Pure le similitudini si facevano scrause.
Comunque non soltanto non ho avuto la battuta pronta, sono rimasta proprio a corto di battute. Non ho risposto niente. Sono tornata a casa mortificata e rancorosa, con la proverbiale coda tra le gambe. Ho sbraitato dei vaffanculo rivolta al muro e poi mi è venuto da ridere. Quando avevo scritto quel pezzo speravo dentro di me che il guru lo leggesse, visto che faceva parte del demografico che il sabato mattina si sedeva al bar per leggere i giornali giusti, e quindi, cazzo, se l’era letto, o qualcuno glielo aveva riferito, il che mi rendeva in un certo senso gongolante ma al momento anche palesemente sconfitta nella nostra guerra di quartiere. Mi sono chiesta come fare a riacquistare terreno, come ribaltare la situazione, come alzare il livello dello scontro, tipo non so, farmi assegnare un editoriale dal Corriere della Sera. Per ora sto ancora qui ad incartarmela.
C’è una foto su internet che odio. È la prima che foto che compare accanto al mio nome quando mi googlo. Non sta nemmeno nelle immagini, sta proprio vicino al nome, come fosse un biglietto da visita. Mi è stata fatta durante una delle tappe del Premio Strega. Ho la faccia devastata, triste, angosciata. Sto male. Mi vedo e rivivo tutto quel malessere. Nonostante sia sempre lì quando cerco il mio nome, ho cercato di farmi passare il disagio, finché ben due amiche (a questo servono le amiche!) mi hanno detto: “Ma che brutta quella foto, chi te l’ha fatta?”. Allora ho pensato di agire. La foto appartiene a Getty. Ho cercato il fotografo, gli ho scritto e gli ho chiesto se poteva farla rimuovere perché mi faceva stare male. Lui è stato molto gentile e mi ha risposto che non c’era problema. Mi ha girato un link di Getty dove richiedere la rimozione. Ho scritto una mail a chi di dovere. Non mi ha risposto nessuno. Ho riscritto un’altra mail per sollecitare. Mi ha risposto tale Alessio dicendo che avrebbe inoltrato la richiesta. Dopo un’altra settimana ho ricevuto una mail dal “Getty Editorial Content Inquiry”, in cui si negava la rimozione in accordo alla loro policy editoriale nell’interesse pubblico.
Responsabilità – Riteniamo che alle fotografie e ai video debba essere applicato lo stesso livello di responsabilità e integrità attribuito alla parola scritta nel giornalismo. In qualità di giornalisti visivi, abbiamo la responsabilità di fornire una documentazione fedele e completa degli eventi che copriamo. Manteniamo l’equilibrio tra il diritto dell’individuo alla privacy e il nostro obbligo di coprire la storia nell’interesse pubblico e riconosciamo che è necessario prestare particolare attenzione alle vittime minorenni.
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Integrità – È la forza portante alla base di tutte le attività svolte e costituisce il principio cardine dell’organizzazione di Getty Images. La nostra integrità si riflette nelle nostre decisioni editoriali e nella nostra copertura corretta e obiettiva delle storie. Le immagini devono essere consegnate al cliente con precisione, trasparenza e prive di manipolazioni e pregiudizi.
Ho riscritto altre mail entrando nel merito delle tre nozioni di responsabilità, indipendenza e integrità che mi sembravano in conflitto con la libera scelta dei due soggetti in causa: il fotografo e la persona fotografata. Non ho mai ricevuto risposta alle mie mail filosofiche e mi sono resa conto che stavo parlando con un bot.
Mi sono incartata anche questa.
Prima di pubblicare il mio romanzo “Niente di vero”, ho fatto due passaggi con l’ufficio legale di Einaudi. Visto che c’erano persone che si potevano riconoscere, mi è stato chiesto di far firmare delle liberatorie. Ho cambiato delle cose affinché potessi evitare questa pratica. Per il resto confidavo che mia madre e mio fratello non intentassero una causa. In particolare c’era la questione di un personaggio, ispirato a una persona vera che oggi non c’è più. Il personaggio in questione faceva vedere il suo cazzo alla protagonista seienne. Mi sembrava assurdo dovermi preoccupare di proteggere la reputazione di una persona non più in vita che mostrava il cazzo a una bambina. La bambina del libro porta il mio nome. Ho cercato di argomentare la mia perplessità con l’avvocato. “Be’, poteva denunciarlo”, mi ha detto lui. “Be’, avevo sei anni”, ho risposto io.
Comunque ho apportato i miei accorgimenti e la cosa è finita lì.
Invece no.
Il libro sarà tradotto nel Regno Unito. L’editor inglese mi scrive per affrontare le questioni legali. Spiego che il libro è già stato visionato due volte da un avvocato per la pubblicazione in Italia. Lei mi dice che nel Regno Unito la policy è diversa. Maledetta policy. Mi rende edotta sul concetto di “libel tourism”. Continuiamo a mandarci mail per risolvere piccoli cavilli rognosi. Sono gli stessi giorni in cui Annie Ernaux vince il Nobel. C’è qualcosa che non mi torna. Come è possibile allora che escano così tanti memoir e libri di autofiction? C’è un’implicita censura di cui non siamo consapevoli? Puntigliose analisi legali che restano fuori dal testo? Ci sono editori che si assumono un rischio e altri no? E perché un’azienda come Getty invece può allegramente fregarsene di chiedere una liberatoria? Sono tutte domande che mi faccio, insieme a una che mi sta più a cuore: ma questo non limita la libertà di chi scrive? La mia editor, invece di sdrammatizzare, mi risponde così: “It’s a massive pain and yes it can cause issues with freedom of expression and authors’ ability to create the art they want to and tell the stories they want to”.
Continuo a incartarmi tutto.