In questa confessione di Elisa vengo chiamato in causa come medico di famiglia a Cuba. Questa in effetti la sensazione che cerco quando imparo o insegno esercizi di respirazione. Non cerco e curo il mio corpo per dargli un antidoto ai mali della società in modo da rimanere performante e competitivo. Cerco il mio corpo e la respirazione lenta (e le altre pratiche) per rinnovare ogni momento, a ogni respiro della mia vita, il disprezzo per quel movimento della storia che ha creato la classe sociale di cui faccio parte e tutti i mostri che la sorvegliano. Per rinnovare il disprezzo a ogni respiro e non dimenticare mai il cimitero su cui è costruita la mia casa.
– Francesco Pacifico
Intuizioni
di Elisa Cuter
Avrei voluto provare a parlare del corpo, per una volta. Un concetto di cui non sono una grande fan. Non sono una grande fan nemmeno del mio corpo reale, che mi ostino ottusamente a vivere come una preoccupazione o un impiccio invece che come una condizione di possibilità, ma il corpo come concetto è ancora più difficile da approcciare per me. Sono scettica, tendo a guardare alla grande enfasi che ci si mette in ambienti progressisti con un misto di diffidenza e stupita ammirazione, ma nella mia riflessione personale e anche nella mia esperienza non ci ho mai trovato un grande potenziale teorico. Né (mi vergogno molto a dirlo) un grande potenziale politico. Sarò repressa io, non lo escludo. Fatto sta che per me è sempre stato un po’ così. Invece stavolta volevo parlare di corpo, provare a capire.
L’occasione era stata una piccola epifania che avevo avuto in un dormiveglia mattutino, quando ti riaddormenti dopo che qualcosa ti ha svegliato qualche ora prima della sveglia. In una di queste fasi ho avuto una specie di sogno lucido: la visione di una pozzanghera sul pavimento, una chiazza di acqua che si allargava verso di me e ho provato un senso come di terrore antichissimo, una fitta di dolore al petto, un impulso fisico a scappare. Sono state delle reazioni veramente fisiche: la pelle d’oca, le gambe che si irrigidiscono e si preparano alla fuga. Mi sono risvegliata in un secondo, con la sensazione di aver toccato un nodo fondamentale della mia esistenza, di aver trovato qualcosa che di colpo illuminava tutto, faceva vedere una quantità di cose che erano rimaste opache nel modo in cui mi raccontavo la mia vita. Una di quelle cose da portare in analisi e passarci almeno un anno di sedute. Ironia della sorte, ho rimosso quale fosse di preciso l’evento della mia infanzia a cui l’ho collegato, ma ricordo benissimo di aver capito d’un tratto una cosa: quanto più “alte” sono le nostre riflessioni, tanto più sono profonde, vale a dire, si avvicinano al corpo, tanto più toccano dei nodi animali, sensazioni fisiche, corporee. La verità (o diciamo, ogni verità) è tale se va indietro, se riesce a captare qualcosa di quel mistero che è il corpo. Sono cose arcinote in psicoanalisi, non ci volevo certo io, eppure (ovviamente) mi è servita un’esperienza “fisica” come quel sogno per percepirle anche io, per crederci e convincermene. Ho dovuto provarle fisicamente. Non era bastato leggerne – mi viene in mente ad esempio un bel saggio di Franco Lolli È più forte di me. Il concetto di ripetizione in psicoanalisi, in cui definisce il trauma come la prima esperienza che facciamo nella quale ci si esplicita la cesura tra corpo e linguaggio: qualcosa che ci capita per la quale non abbiamo “parole”, non abbiamo spiegazioni, non abbiamo un ordine. E che per questo, naturalmente, ci terrorizza e attrae (spesso per sempre, inesorabilmente). La nostra vita, la nostra individualità, si definisce lì, in quell’incontro con questo indicibile, con il nostro corpo e con come questo reagisce al primo evento traumatico. Per tutta la vita torneremo lì come falene alla luce, se si attiva una coazione, o comunque cercheremo di darcene una spiegazione, diventando banalmente dei nevrotici come la maggioranza delle persone.
Proprio il giorno dopo aver fatto quella specie di sogno ho trovato una cosa su Facebook scritta da Eleonora Santamaria che mi era sembrata perfettamente in linea con quello su cui stavo ragionando:
C’è un proverbio sefardita che dice: El meoyo es una tela de sevoya. Traccia del giudeo-spagnolo, mia nonna mi ripeteva che ‘il cervello è una sfoglia di cipolla’. Un segreto sussurrato ha viaggiato per nave e per secoli: tutto ciò che può stare in contatto con l'Altro (Cose Che Hanno Cervello) non è nobile né etico, è solo complesso e fragile. E sì, devi lavarti le mani spesso.
Lo so, è un piccolo passo per l’umanità ma un grande passo per Elisa Cuter, accorgersi che quanto più alte sono le nostre intuizioni tanto più sono ancorate al corpo. Ma mi sembrava di aver scoperto il sacro Graal, mi sembrava che tutto si tenesse, che se avessi seguito questa piccola scoperta, finalmente credendoci davvero, avrei potuto portar più avanti e in modo più coerente le cose su cui mi arrovello: il materialismo, la sessualità. Quest’ultima è (anche) animale, mi dicevo, e trovavo conferma in un pezzo su nuove scoperte sull’evoluzione:
è facile trovare noiosi i documentari naturalistici che ci raccontano le cose come se gli animali ne fossero consapevoli. Per commentare una scena in cui due maschi di zebra si scalciano e mordono reciprocamente, la voce narrante spiega con autorevolezza: ‘Questi maschi combattono per decidere chi feconderà le femmine’. Però quei maschi di zebra non sanno nulla di spermatozoi, ovuli, geni o del modo in cui si arriva alla gravidanza. Combattono per decidere chi monterà la femmina. Punto e basta. Non è un loro problema chi riuscirà a figliare. Solo noi, studiosi di biologia, guardiamo dietro il velo e pensiamo in termini di maschi che riusciranno, o meno, a trasmettere i propri geni.
Cosa c’è di più legato al sesso, ragionavo allora, o cosa c’è di più materiale, del corpo? Viva il corpo! Ragioniamo sul corpo! Amiamo il corpo! Mi sentivo pronta a scriverne trattati, ma soprattutto a unirmi a questa specie di movimento per la Liberazione dei Corpi che vedo in azione (...su internet) da un po’ di tempo a questa parte.
Però ora mi trovo a un workshop di scrittura per dottorandi, su zoom, pagato con fondi pubblici dell’università. Ho iniziato a scrivere questo pezzo durante la seconda sessione di cinquanta minuti che ci è stata assegnata. Ognuno può scegliere se tenere la webcam accesa o spenta (tutti l’hanno spenta tranne la mia collega) mentre svolgono un compito che si sono autoassegnati ma che hanno dovuto comunicare agli altri. Io ho detto che avrei provato a riscrivere l’introduzione al capitolo su cui sto lavorando usando le intuizioni giunte ieri, quando abbiamo dovuto disegnare il nostro paper “come una casa” e successivamente offrire un “home tour” del capitolo a un partecipante preso a caso con cui siamo stati spediti in una breakout room. Quando la coach ci ha assegnato il compito ho immaginato di copiare le scale impossibili di Escher, poi mi sono detta no, dai, provaci, vediamo. In effetti ho tirato fuori qualcosa un po’ dark, con botole e scantinati bui, ma che comunque mi ha fatto realizzare che il mio capitolo era più strutturato di quanto non temessi. Insomma l’esercizio di visualizzazione è stato utile. Whatever works, immagino. Dico questo a testimonianza del fatto che questo non vuole essere un reportage indignato, solo un modo per spiegarmi perché mi sento così triste e sconfortata, perché sto scrivendo questo invece di lavorare sul capitolo come ho dichiarato, fingendo. Ho provato davvero a non partire prevenuta, ho provato a dare una chance a questa bella iniziativa di supporto alla produttività e contemporaneamente alla salute mentale dei dottorandi. Ma non riesco, non riesco, non riesco! Is it me?
Francesco crede nella meditazione, negli olii essenziali, negli esercizi di respirazione, nello yoga, nella disciplina monastica, che è una pratica fisica, quanto di più corporeo offrisse l’educazione cattolica che entrambi abbiamo ricevuto. Io accetto consigli da lui, il suo corpo (come il mio) non è IL CORPO, è un corpo, il corpo di un amico che ti dà consigli con fare intimo e amichevole come immagino farebbe un medico di famiglia a Cuba. Con un approccio olistico, confidenziale e mirato alla prevenzione. Ti conosce, ti ascolta, ti somministra una cura. Le risate piene di entusiasmo finto di questa sconosciuta di cui so solo che fa la coach da otto anni e che prima studiava all’UdK (l’accademia d’arte) di Berlino invece mi arrivano come le grida del sergente di Full Metal Jacket, davanti a questo plotone di dottorandi ridotti al ruolo di matricole spaurite. In Germania un titolo accademico garantisce un salto salariale, quindi molta gente intraprende un dottorato anche avanti con l’età, e così mi trovo ad assistere a questo spettacolo desolante di persone tra i venticinque e i cinquant’anni, che studiano e lavorano da una vita, trattate come bambini dell’asilo, come poveretti incapaci di Prendersi Cura del loro Corpo. Perché in questo workshop la coach non legge le cose che abbiamo scritto, non ci dice se i ragionamenti sono consequenziali, se le cose sono scritte in modo comprensibile… non fa nulla di tutto questo. Lei ci fa fare gli esercizi di respirazione, ci fa fare stretching, poi mette un timer, se ne va a farsi i cazzi suoi e dopo cinquanta minuti torna e dice “fatto?” come Giovanni Muciaccia. Ci dice di guardare ai nostri sforzi di concentrazione con benevolenza e carità, anche se non abbiamo raggiunto l’obiettivo - il fatto che magari la nostra borsa sta per scadere e per allora l’obiettivo andrebbe raggiunto non sembra sfiorarla -, ci dà il compito pomeridiano di uscire a camminare nel verde, mangiare un gelato o fare un bagno con sali profumati. Prima di far partire le sessioni ci manda nella chat un link Spotify e YouTube a una canzone, e ci chiede di ballare. “Il vostro corpo deve liberare l’energia che userete scrivendo, e al vostro corpo non piace sentirsi dimenticato per quasi un’ora. Sentite il vostro corpo, liberatelo!”. Spegniamo tutti la camera, solo lei la tiene accesa, posso vederla mentre si dimena nel suo salotto enorme con stufa in ceramica tradizionale degli Altbauten berlinesi, ormai proibitivi (ma immagino che per chi organizza retreat di scrittura di una settimana nel Brandeburgo alla quota di 980 euro + accomodation and food a persona permetterselo non sia un problema). Salta e balla a beneficio di webcam, io tremo di umiliazione. Eccomi ridotta al mio corpo, inchiodata al corpo. Cosa scrivo, cosa penso, non interessa. L’importante è che mi metta a ballare sui Mumford & Sons.
Mentre lei balla faccio un video, che non penso di poter allegare qui, in cui inquadro lo schermo e alzo il dito medio. Questo esercizio “fisico” è in effetti l’unica cosa che mi fa sentire meglio.