Sulla parete della mia stanza ho affissa una delle tante versioni dei questionari di Proust, trenta domande che passano da qual è la tua attuale condizione mentale a qual era il tuo libro preferito da bambina a dove vorresti vivere. Non conosco le domande originali, ma sono certa che non si tratti di queste; ho letto versioni simili su riviste di letteratura o di moda, usate per dare un veloce affresco della personalità di questa o di quella persona famosa. Riguardano per lo più argomenti non divisivi – infanzia, preferenze, stranezze minori – ma non per questo sono innocue. Nel 1997, lo psicologo Arthur Aron promosse uno studio simile alla Stony Brook University; le riviste di lifestyle vi si riferiscono come alle “36 domande per innamorarsi di qualcuno”, ma quello che lo psicologo voleva studiare era se fosse possibile accelerare la creazione di vicinanza e intimità tra due sconosciuti. Lo studio, che si trova qui, usava il termine vicinanza nel senso di condivisione di qualcosa di intimo e personale con gli altri. Funzionava così: i soggetti (volontari) venivano divisi in coppie formate da estranei che, grazie a un questionario precedente, avevano potenzialmente qualcosa in comune. Una volta sedute una di fronte all’altra, a turno dovevano rispondere a una serie di domande personali. Quello che lo studio favoriva era dunque l’accordo (il questionario verteva su diciassette attitudini personali, es. il fumo, su cui si poteva esprimere accordo/disaccordo in una scala da 1 a 7) e a questo aggiungeva la condivisione di pensieri intimi come potente accelerante. I soggetti stavano nella stessa stanza per un’ora e mezza, di cui la metà passata a porsi le domande. Elementi decisivi nella creazione delle coppie erano: lo stile di attaccamento (cinico-evitante/ansioso/entusiasta) e il grado di estroversione e introversione dei singoli soggetti. I cinici e gli introversi erano quelli in cui si rilevava un minore grado di intimità prodotta, per così dire: i primi pagavano la disillusione (niente importa/non voglio legarmi), i secondi il fatto di essere messi in coppia con sconosciuti (agli estroversi cioè andava meglio, perché avevano l’abitudine di condividere i fatti propri).
L’esperimento aveva avuto successo – cioè era stato capace di creare intimità e poi di capire perché fosse accaduto, dove fosse accaduto, rispetto a quali fattori, ma al di là del titolo (“36 domande per innamorarsi”) c’è poco di sensazionale. Del resto, non è praticamente quello che le app di incontri fanno per noi – matchano persone che potrebbero avere qualcosa in comune E chiedono di rivelare informazioni personali – e quello che facciamo noi sulle app – scartiamo chi chiaramente non combacia con la nostra visione di mondo, cerchiamo qualcuno con cui condividere il nostro mondo interiore? Gli amici-in-comune sono, in un altro modo, lo stesso tipo di filtro.
Una volta creata l’intimità, consiglio di fare il 5-love-languages test, per chi non lo conoscesse: spiega come esprimiamo il nostro affetto e cosa è importante per noi – essere supportati con le parole, aiutati con i gesti, tocchicciati il più possibile, passare tempo insieme. Non so perché questa intro sembra una intro da San Valentino, ma va bene così anche se non c’entra molto con la Gua Sha di questa settimana, che parla di INTERVISTE e se c’entra è comunque un’altra cosa. Leggendo i due pezzi di Veronica e di Alberto Piccinini, pensavo al fatto che le uniche due volte che ho mandato un’intervista per approvazione, poi ho perso del tutto la stima della persona che avevo intervistato (uno mi aveva detto che tradurre le pause di voce con i due punti era tradire completamente il suo pensiero, ancora oggi mi chiedo se sia possibile). E poi al fatto che oggi ho letto una recensione del nuovo romanzo di Jennifer Egan, che sembra sciatto e terribile e già datato – il recensore non ha fatto niente per camuffare la sua opinione e forse mi ha fatto risparmiare dei soldi. Nessuno invece mi ha fatto lo stesso favore con C’mon C’mon di Mike Mills, ovvero l’unica volta in cui me ne sono andata dal cinema prima dei titoli di coda; buffo notare che tutto quel film ruota intorno a interviste con ragazzini sul tema del futuro, interviste in cui i bambini sono così intelligenti e tanto EMPATICI che uno degli intervistatori chiede (giuro!) “Che PDF hai letto?”. Interviste, sentimenti, eliminare il disaccordo, creare l’intimità in un ambiente artificiale: anche stavolta tutto si tiene in questa intro. Sto ascoltando Sachi Kobayashi - More Than Just a Dream (2020) da un canale YouTube che si chiama siberian ambience e all is well.
– Sara Marzullo
Questo numero di Gua Sha è eccezionalmente disponibile anche per i non abbonati. Ti ricordiamo che puoi ricevere questa newsletter ogni giovedì (e leggere tutti i numeri precedenti) solo in cambio di un piccolo ma fondamentale contributo
Niente compromessi
di Veronica Raimo
Quando lavoravo per Rolling Stone molti anni fa (credo fosse il 2007), il caporedattore che mi aveva chiamato per collaborare mi aveva concesso di fare la mia prima intervista. Era con uno dei miei musicisti preferiti, lui lo sapeva e mi aveva detto soltanto: “Mi raccomando, niente compromessi”. Nutrivo una grande stima per quest’uomo e anche una grande riconoscenza, però non avevo capito cosa intendesse. Lui non me l’aveva voluto spiegare. Pensavo volesse mettermi in guardia dall’eccessivo entusiasmo che poteva suonare amatoriale, quindi avevo lavorato sulle domande per non tradire in alcun modo un amore da fan. Volevo dimostrare a lui, a me stessa, al musicista che ero una professionista. Avevo preparato l’intervista per due settimane. Avevo un quaderno di appunti riempito per una quarantina di pagine. Avevo controllato la pronuncia di tutte le parole inglesi. Avevo registrato la mia voce per sentire come suonasse in un’altra lingua. Quando avevo incontrato il musicista, avevo fatto le mie domande che duravano dieci minuti l’una, e l’intervistato si era limitato a rispondermi: “Sì”, “No”, “Boh”, “Forse”. Quel pezzo per fortuna non è mai stato pubblicato. Quando ho chiesto al caporedattore cosa volesse dirmi con “Mi raccomando, niente compromessi”, non ricordava nemmeno di avermelo detto.
Qualche mese fa ho intervistato via email una scrittrice che ammiro molto. Non avevo il suo contatto diretto, quindi tutto è passato per una duplice intermediazione: quella della casa editrice italiana e quella dell’assistente della scrittrice. Chiamerò la prima intermediazione INTA e la seconda INTB. Il libro appena uscito della scrittrice che ammiro molto non era stato un grande amore. Ho scritto le mie domande, le ho mandate a INTA che le ha mandate a sua volta a INTB. INTB ha fatto sapere a INTA che la scrittrice non avrebbe risposto alle mie domande perché non era chiaro cosa pensassi del libro. INTA mi ha chiesto cosa pensassi del libro, le ho detto la verità, ma non mi sembrava che questa cosa trasparisse dalle mie domande. Avevo lavorato sulla neutralità appositamente. La scrittrice che ammiro molto evidentemente aveva sgamato cosa si annidasse sotto quel tono neutro. INTA mi ha chiesto se potessi scaldare un po’ le mie domande, togliere la neutralità e aggiungere del calore, un po’ di enfasi, un giudizio di valore. Ero depressa dalla richiesta, incazzata con la scrittrice che ammiro molto e con il mondo intero, ma sapevo anche che dovevo portare il pezzo a casa. Ho telefonato a una mia amica scrittrice per lamentarmi e lei, che non sopporta il fatto che mi lamenti per delle cose stupide, mi ha semplicemente detto: “Ci penso io”. Le ho girato le mie domande. Lei non aveva letto il libro, ci ha aggiunto calore, enfasi e giudizio di valore e me le ha rimandate. Le ho spedite a INTA che le ha mandate a INTB, INTB ha risposto a INTA dicendo: “Perfette”. La scrittrice che ammiro molto ha risposto alle domande, io ho portato il pezzo a casa.
Qualche settimana dopo, una giornalista mi ha chiamato al telefono per farmi un’intervista sul mio libro appena uscito. Alla terza domanda ho intuito che non avesse letto il libro. Gliel’ho detto. Lei ha ammesso. Si è giustificata, mi ha detto che non aveva avuto modo, che le dispiaceva tantissimo e che c’erano delle cose che avrebbe voluto spiegarmi, ma non poteva farlo. Abbiamo chiuso la telefonata, lei non si è potuta portare il pezzo a casa e io mi sono sentita orrendamente in colpa. Ho sperato dentro di me che trovasse qualcuno con cui lamentarsi, un’amica a cui dire: “Senti che rottura di cazzo mi è successa oggi”. E che questa amica le dicesse: “Ci penso io”. E che insieme avessero trovato una soluzione. Ma non è andata così. Poi però, qualche giorno fa, ho trovato un suo post in cui raccontava la vicenda. Dopo la nostra telefonata si era letta il mio libro per ripicca. Le ho voluto molto bene, avrei fatto la stessa cosa. La ripicca è un ottimo valore.
THAT HITS IN THE HEART!
L’intervista
di Alberto Piccinini
CRONACA
“ERA SOLO LA PERIFERIA DI UN PAESONE DI AGRICOLTORI”
Nemmeno il sole di questo giorno pieno di luce dopo una settimana di freddo e di pioggia riesce a illuminare l’ingresso del condominio dove abitava Ettore (Antonio/Giacomo), la vittima. Cinquantotto (quarantasei / trentotto) anni appena compiuti, militare di carriera nell’esercito (imbianchino / piccolo imprenditore edile), con un passato da camionista e autista di pullman, qualche vicino più anziano lo ricorda da piccolo: la famiglia appena arrivata dal sud (dal nord / dall’Albania) abitava in una cascina dalla parte opposta della strada. Allora il borgo delle Case Nuove (del Monte / del Passero) era la periferia di un paesone di agricoltori (artigiani / operai). Oggi la cascina non c’è più, l’hanno abbattuta per costruire lo svincolo che porta alla nuova circonvallazione (autostrada / centro commerciale). Passava poco di qui Ettore, dapprima quasi soltanto di notte dopo uno dei massacranti turni sulla strada, poi in corrispondenza delle lunghe pause tra le missioni all'estero (i cicli di terapia / la cassa integrazione). Quando siamo arrivati, i bambini giocavano a pallone (alla guerra / a mosca cieca) – tra loro i figli della coppia marocchina (pugliese / ligure) che secondo le prime voci avrebbe sentito qualcosa, testimonianza preziosa ma ancora da valutare in un caso che si presenta oscuro e livido come le quattro rampe di scale che ci separano dalla porta. Ora suona garrulo, incongruente, un campanello (una canzone alla radio / il fischio di un merlo). È aperto. Entriamo.
Signora Ada, quando è stata l'ultima volta che ha visto suo marito?
POLITICA
IL PRESIDENTE CHE HA STUDIATO DAI GESUITI
Appoggia le mani ben curate alla grande scrivania di legno scuro (chiaro / antico) protetta da un vetro. Sopra il vetro alcune cartelline trasparenti (opache / colorate) disposte – lo capiremo in seguito – secondo un disegno, forse un ordine mentale scelto con cura come ogni volta prima di un’intervista difficile (cruciale / importante) che coincide oltretutto con un momento grave per il Paese (il Partito / la situazione internazionale) e la sua personale ascesa. Mani curate, a ben vedere, che non toccano davvero la scrivania, ma scivolano sopra il cristallo arrotondato, e lasciano intravedere il polsino bianco della camicia sotto la giacca grigia, di un grigio che sembra eterno, come gli hanno insegnato anni nelle scuole dei gesuiti. Uno sguardo all’orologio con un gesto fugace non turba l’equilibrio, né l’aria limpida di questa stanza che ha visto passare i secoli (le epoche / nobili e cardinali). “Hai 10 minuti” (5 minuti / 20 minuti), ha sussurrato l’addetto stampa che mi ha accompagnato alla porta aperta a metà, “e poi giocatela”. Basta un cenno d’intesa, tra uomini. Anch’io ho fatto le scuole dai gesuiti.
Presidente, ha mai la sensazione di essere la reincarnazione di qualcuno? E se sì, di chi o di che cosa?
CINEMA
“QUALCHE VOLTA MI SENTO COME UN ERMELLINO SPERDUTO NELLA NEVE”
Mi guarda con occhi che si lasciano appena indovinare dietro gli occhiali scuri (la veletta / il cappellino calato), ma anche così il suo sguardo è netto e tagliente come la spada di un samurai (un coltello affilato / la lama di un ghiacciaio). Con un gesto appena percettibile ma fermo attira l’attenzione di un cameriere. È seduta sull’orlo di una chaise-longue (un’amaca / una poltroncina) nel cortile dell’hotel Excelsior (Ritz / Martinez), come l’avessi sorpresa intenta a fare cosa, ma l’appuntamento era preciso – ci ripenso in un istante – e sono arrivato qui rispettando tutte le regole convenute (le precauzioni di sicurezza / le norme anticontagio). Mi avvicino finché il suo volto mi appare incorniciato casualmente in una finestra sul mare. Prima di porgermi la mano, con un secondo gesto indica per me il pouf verde dall’altra parte del tavolino. Frugo nelle tasche, cerco il registratore con l’ansia di chi sta per affrontare un esame difficile e quando cade il mazzo di chiavi di casa (il cellulare / l’accendino) con un rumore secco sul pavimento stile coloniale, temo di perdere il controllo. Ignara ordina tè alla menta (spritz Aperol / una tisana) con buon accento francese – il cameriere, con passo felpato, si era intanto avvicinato a noi – provo a sbirciare il titolo del libro che sta leggendo, ma la copertina è girata verso il basso. Un cane, in lontananza, abbaia.
A quale animale paragonerebbe il suo personaggio in questo film?