I primi soldi nell’editoria li ho fatti come traduttore. I soldi dell’anticipo per il primo libro non possono essere considerati soldi. Sono quasi vent’anni che alla domanda “Perché sei traduttore?” rispondo che è la prima cosa per cui sono riuscito a farmi pagare. In questa Gua Sha c’è solo il triste scintillio dell’hustle visto, sentito e descritto da Sara. Sara scrive di artisti che fanno opere concetto sul vendere il proprio corpo e le proprie emozioni perché è difficile per gli intellettuali giocare sul fatto di vendersi. Ho imparato molti mestieri con disperazione. L’idea di Sugar Daddy non la posso comprendere appieno, non sta a me, ma forse capisco perché si usa la parola Sugar. Mi sono venduto a ogni livello dell’editoria e mi è sempre comunque sembrato più zuccheroso che vendermi altrove. Nelle opere raccontate da Sara la compravendita da luogo di potere sbilanciato sembra magicamente riequilibrarsi un po’ grazie al lavoro simbolico dell’artista, e a un certo uso dell’onestà. Le nostre generazioni non andranno in pensione, ma forse sarà un bene perché siamo stati così stressati fin dal primo giorno della nostra lunga carriera nella vendita dei nostri corpi e cervelli e delle nostre emozioni che probabilmente, se potessimo andare in pensione, moriremmo all’istante al primo giorno di riposo.
– Francesco Pacifico
Il corpo dell’artista (lo sugar daddy come performance)
di Sara Marzullo
Nel 2021, per un mese, Sophia Giovannitti ha trasformato la galleria Recess a Brooklyn in uno spazio di discussione sul ruolo delle transazioni economiche nell’arte. Sulla porta, sui programmi, nei comunicati stampa aveva chiamato l’opera Untitled (Incall): il titolo richiamava una performance dell’artista Andrea Fraser del 2003, chiamata semplicemente Untitled, nella quale Fraser si era filmata mentre faceva sesso con un collezionista d'arte come adempimento contrattuale dell’acquisto di un’opera d'arte; l’opera in questione era il video stesso, per una cifra intorno ai 20.000 dollari.
Durante quel mese Giovannitti, tramite un bando pubblico, per così dire, aveva invitato un collezionista a commissionarle un'opera d'arte performativa per un compenso di 20.000 dollari, pari a quello di Fraser. L’opera si sarebbe svolta negli spazi della stessa galleria Recess, dopo l’ora di chiusura. In termini tecnici, l’incall è lo spazio che una sex worker riserva ai suoi clienti; l’oggetto della transazione era lei stessa, o meglio, l’accesso al suo corpo, alla sua mente, averla a propria disposizione. Il collezionista avrebbe poi ricevuto solo un certificato cartaceo attestante la proprietà della singola performance commissionata. Il contenuto della performance sarebbe rimasto privato e non registrato; al posto di un’immagine pubblica dell’opera, la transazione economica.
Nella galleria, Giovannitti aveva posizionato un grande letto bianco, steso rose rosse con lunghi steli su una garza, riempito gli scaffali di libri sul sex work e contraccettivi. Le foto dello spazio espositivo si trovano qui: c’è uno specchio, ci sono dei divani. Nella descrizione dell’opera, scrive:
Se Fraser ha usato la metafora della prostituzione per commentare la relazione di tipo estrattivo e basata su fantasie che si crea tra l’artista e il collezionista, Giovannitti chiede al suo pubblico di ragionare sulla circolarità del flusso del capitale: per guadagnarsi da vivere, molti giovani artisti vendono sesso agli iper-ricchi, in attesa di diventare abbastanza affermati a livello istituzionale da vendere la propria arte a quegli stessi clienti. Per Giovannitti il "compratore" è la medesima persona; l'acquisto di lavoro erotico di artisti precari ed emergenti finanzia oggi gran parte della produzione culturale dei singoli a New York.
Quello che i compratori/collezionisti vogliono, spiega Giovannitti, è una fantasia, è acquistare qualcosa. Così, invece di doversi ‘prostituire’ (con e senza virgolette) per produrre lo stesso qualcosa che questi iper-ricchi possano far diventare proprietà privata, l’artista dice: ditemi cosa volete per 20.000 dollari e sarà vostra, solo vostra; avrete la vostra fantasia, io avrò uno stipendio con cui vivere in questa città, farò coincidere l’hustle con l’oggetto. Ciò che scopre è che dire ad alta voce quello che si desidera è sempre difficile:
Pensavo di aver reso esplicito ciò per cui ero disponibile – essendo molto letterale e chiara – ma molte persone si sono avvicinate a me in modo ambiguo ed esitante. Mi sembrava di vedere che in molte interazioni i desideri delle persone restavano impliciti e non soddisfatti. Mi sorprendeva quanto le persone fossero riluttanti a dire ciò che volevano veramente, anche se gli veniva data l’opportunità… Pensavo di essere stata chiara su ciò che le persone potevano dire, cose tipo ‘Voglio questa cosa specifica da te’, o ‘Voglio scoparti’, o ‘Voglio che tu risponda a queste domande per me’. ‘E questo è ciò che posso offrirti in cambio’, che si tratti di soldi o di scambi o altro.
In queste settimane, dal 5 marzo al 6 aprile 2022, Giovannitti sta replicando l’esperimento alla Duplex Art di New York. Le regole sono simili: la galleria è allestita nello stesso modo e l’acquirente può chiedere cosa vuole, in cambio di un deposito di 1.000 dollari, non rimborsabile. Sophia Giovannitti mantiene riservatezza sul contenuto dell’opera, a meno che il contratto firmato non venga violato e lei si debba rivalere sulla perdita. Stavolta la galleria resterà chiusa al pubblico, accessibile solo su appuntamento – incall.
Non possiamo permetterci di lavorare per amore, scriveva nella prima mostra; qui il testo di sala descrive come la sfera privata dell'artista venga reificata per aumentare e sostenere il valore di mercato dell’opera, che il desiderio (l’amore) per l’arte viene utilizzato per sfruttare – sessualmente e creativamente – la giovane artista. Sophia Giovannitti rende questa sfera costosa e, allo stesso tempo, materiale, dandole un prezzo. La sua intimità non si trasforma in un’opera che è per i mega ricchi un oggetto collezionabile, ma diventa un oggetto in sé. Non si ‘prostituisce’ (come scritto sopra), non fa ‘marchette’ (sempre con o senza virgolette) per ottenere un posto nel panorama artistico, ma vende la soddisfazione di un desiderio, rendendo evidente (dunque neutralizzando?) lo scambio e riappropriandosi del costo (intascandoselo).
Sophia Giovannitti si imbarca in una missione folle: rendere trasparenti e concreti i sistemi opachi ed erotizzati di scambio che facilitano l'estrazione di valore dagli artisti da parte di coloro che occupano posizioni di potere materiale e culturale. L'attuale sistema di estrazione di valore dagli artisti da parte del mercato dell'arte si basa sull'incertezza aspirazionale di entrambe le parti verso ciò che l'altra potrebbe eventualmente offrire, facilitando la partecipazione a un gioco intimo di possibilità, allusioni, e sfruttamento. Il sistema si inceppa quando i termini vengono resi chiari, permettendo potenzialmente il verificarsi di nuove forme di produzione di valore.
Sophia Giovannitti vuole parlare dell’industria culturale, di cosa richiede per potervi partecipare, in termini di sfruttamento personale ed economico. Parla della criminalizzazione della prostituzione, di ‘riappropriarsi’ del proprio sfruttamento, di rendere evidenti le dinamiche di sfruttamento, di violenza, di come l’aspirazionalità, il mercato, il potere agiscano su quella che chiamiamo comunemente arte. Tutto questo e molto altro. Una delle persone che leggerà questa newsletter, una volta mi ha detto, facciamo tutti delle marchette, e intendeva scrivere cose di cui non gli fregava niente; in quel caso neanche per soldi, solo per posizionamento. Intendeva dire che devi darti un po’ via, per un posto alla tavola del re. Se penso a quale posizionamento si riferiva, mi viene da dire che non ne valeva la pena – e che forse non ne vale mai, ma è vero che marchetta è un termine relativo, che dipende da chi la accetta e da chi la commissiona, da chi crede di estrarre valore da chi, da chi vende e chi acquista questa specie di fantasia… New Grub Street, Elisa, questo è per te. Lettore, mon semblable, mon frère!, magari è anche per te.
Mentre riflettevo su questo, ripensavo a Rhythm 0, la performance di Marina Abramovich a Napoli nel 1974, in cui era rimasta immobile e inerte, accanto a un tavolo su cui erano disposti 72 oggetti, tra cui una rosa, del pane, un profumo, una bottiglia di vino, e una pistola. Voleva indagare le tensioni tra abbandono e controllo.
Le istruzioni spiegavano:
Ci sono 72 oggetti sul tavolo che possono essere usati su di me nel modo in cui desiderate
Io sono l'oggetto
Mi assumo completamente la responsabilità di quello che faccio
Durata: 6 ore (dalle 20:00 alle 2:00)
Non aveva chiesto anche lei al suo pubblico di fare quello che voleva col suo corpo? Tanto che quando il pubblico aveva capito che poteva fare quello che voleva con lei, che non avrebbe reagito, aveva iniziato a infierire su di lei.
A chi appartiene il corpo dell’artista? Cosa gli chiediamo? Come si deve comportare? Si racconta che alla fine delle sei ore di performance, quando Abramovich è tornata a essere non più né un oggetto d’arte né un’artista, ma una persona, le persone si siano allontanate in fretta, incapaci di avere un confronto reale con lei.
“L’anno seguente, nella sua performance Role Exchange, una prostituta sostituì Marina all’inaugurazione della sua mostra ad Amsterdam, e Marina sostituì la prostituta nella sua vetrina nel quartiere a luci rosse. Il testo della performance affermava: Entrambe ci assumiamo la piena responsabilità dei nostri ruoli”, ricorda Chelsea Hodson nel suo Pietà per l’animale, contenuto in Stasera sono un’altra, la raccolta di saggi tradotta da Sara Verdecchia e pubblicata da Pidgin Edizioni.
Nel saggio Hodson mescola la propria storia lavorativa – da American Apparel le regalavano un costume da bagno se avesse accettato di indossarlo durante il suo turno, i 120 dollari per servire cocktail a un party e probabilmente accettare che gli ospiti flirtassero con lei – alla sua partecipazione a una delle performance di Abramovich, alla visione di the artist is present – alla tentazione di iscriversi a una piattaforma di sugar daddy, dal nome Seeking Arrangement, “una scappatoia per la prostituzione”, come dice lei.
“Provai a iscrivermi a WhatsYourPrice.com, un sito in cui gli uomini fanno specifiche offerte di denaro per portare le donne agli appuntamenti, ma il mio profilo continuava a essere rifiutato. Il sito mi inviò un’email con un suggerimento: Sii meno esplicita. Seeking Arrangement aveva approvato il mio profilo, che diceva, Merito di essere pagata”.
Come dice Giovannitti: “Il sistema si inceppa quando i termini vengono resi chiari, permettendo potenzialmente il verificarsi di nuove forme di produzione di valore”. La scappatoia per la prostituzione significa che tra lei e lo sugar daddy c’è un mutuo scambio, favori reciproci, ma quando lo scambio diventa evidente – stai pagando non per mantenermi, ma per soddisfare questa fantasia che hai – le cose si fanno, al solito, più complicate, perché più evidenti, meno sottili.
“Deve essere bello avere tutto quel denaro… Se il mio lavoro consiste nel mettermi in mostra a una finestra, allora attirerò gli uomini all’interno. Loro faranno domande sul mio utilizzo. Io godrò delle mie funzioni”.
Hodson viveva a New York all’epoca. E di questa storia ha fatto un’opera. “Non sono mai riuscita ad andare fino in fondo. C’erano tanti dettagli da sbrigare; la negoziazione divenne una sorta di dominio che disprezzavo”. Hodson ha riempito l’opera con la performance che può o non può aver fatto (non possiamo verificare) sufficientemente resa anonima.
Qualche mese fa è uscito Shiva Baby, un film ‘indipendente’ in cui una ragazza incontra il suo sugar daddy a una shiva; il film che ha sdoganato gli arrangement tra ragazze al college e uomini con troppi soldi? Così si diceva… time to face the truth! Ovviamente lo sugar daddy era un uomo molto bello e intelligente, con una bella moglie e una casa da Architectural Digest, questo è ovvio… Così come l’uomo con cui inizia una relazione Frances di Parlarne tra amici, che – ora che ci penso – per un po’ la campa, in cambio di un po’ di ascolto, il sesso come prodotto secondario, pretesto… Ma sto divagando?
Esiste la possibilità di riappropriarsi del proprio valore, dandogli un prezzo? Rendendo il proprio capitale sessuale – l’unica cosa che queste ragazze sembrano possedere che il potere desidera – o artistico/posizionale, una merce come le altre, stabilendo un tariffario in cui forza lavoro e merce coincidono, si esce dal paradosso? Ci si libera? O semplicemente si trasforma in arma la propria sottomissione, la reazione diventa lo spazio di dibattito – se invece di permettere lo sfruttamento, lo si chiama a sé, smette di essere sfruttamento? Svelare le regole del gioco è un modo per cambiare le cose, per uscire dall’ambiguità e dalle incertezze? Mi sembra che alla fine si torni qui, al fatto di celebrare la violenza palese in quanto onesta, perché onesta; chiamare le cose col proprio nome, che poi forse è anche il compito della letteratura, della filosofia, delle arti. È tutto quello che è a nostra disposizione, quando ci troviamo in una posizione di reazione, pensiamo, ci illudiamo, ci giustifichiamo – eppure probabilmente non è che una conferma dello status quo, dire se queste sono le regole del gioco… vuol dire restare nel campo di gioco.
“Una donna diventa una ragazza diventa un animale diventa un oggetto. Cos’altro resta?”