Le riflessioni di Sofia Torre in questo numero mi hanno dato l’effetto come di un tuffo in una piscina con le pareti a specchio, in cui la protagonista di Giada Biaggi è immersa per intero, con una serie di uomini che la osservano dal bordo. Dopotutto, (ri)emerge sempre un unico tema: la felicità. Concetto ondivago, personale, illusorio, inafferrabile, duttile, e spesso forse troppo legato all’universalità “del disperato desiderio d’amore”, alla “paura di morire soli”, al “trovare qualcuno che riesca a volerci abbastanza bene da restare tutta la notte”. Ma c’è qualcosa di più. Perché se consideriamo vero che “l’amore implica sempre un postulato d’insistenza, come lo shopping online; ti manca sempre qualcosa per essere felice”, è altrettanto vero che essere in pace con se stessi è la sensazione che più manca nelle persone che ci circondano. Più della tanto ricercata felicità. E l’amore è solo una possibilità.
La verità è che oggi devi accontentarti di questa sgangherata introduzione perché le autrici e gli autori che curano questa newsletter stanno lavorando a una “nuova forma” che Gua Sha prenderà dal prossimo mese. Ormai è trascorso più di un anno dal primo numero, ed è importante far evolvere il progetto. Tanto quanto la scrittura.
– Gianluca Di Tommaso
Il soffitto di Giada
di Sofia Torre
“La scrittura di Giada Biaggi avrebbe tutto per risultarmi insopportabile, eppure il libro mi ha divertito e mi ha dato da pensare”, ha scritto Walter Siti su Domani a proposito de Il bikini di Sylvia Plath. Copertina squillante e vagamente wesandersiana, titolo accattivante e dalla facile contestazione, il romanzo ha suscitato delle prevedibili reazioni da parte di coloro che si occupano di letteratura, femminismo, attivismo e sessualità resistente. Una persona che stimo l’ha definito “milanese”, intendendo la condensazione di tutta la spocchia, la borghesia e i vizi che tendiamo ad associare al capoluogo lombardo: “Con quella copertina supersexy attirerà le fan etero di Wes Anderson, le altre troveranno solo eterosessualità malsana e milanese”. E poi ha aggiunto: “L’autrice e la protagonista hanno tutta l’aria di crederci davvero, e di vivere a Milano”. Il bikini di Sylvia Plath ha molto poco in comune con la maggior parte dei libri a tema sessualità e femminismo che imperversano tra le pensatrici femministe di sinistra. La maggiore differenza? La mancanza di entusiasmo. Non si fanno sconti a nessuno, né al patriarcato né al femminismo, e un sottile senso di morte e di fine attraversa tutta la narrazione, disseminata di disperazione nei modi più disparati: citazioni di intellettuali suicidi (Mark Fisher, David Foster Wallace, ovviamente Sylvia Plath), il riferimento all’orgasmo femminile col suo nome francese (petite mort, “piccola morte”), il lessico catastrofico che segna i gesti quotidiani (“spingere nel nulla”, “crollare”, “morire”). Niente a che vedere con le incitazioni alla rivolta, la solidarietà senza remore della sorellanza, l’energia lisergica di chi ha uno scopo, un obiettivo e una priorità chiara.
Giada Biaggi non fa parte della mia platea di riferimento ma, forse proprio per questo, mi piace molto. Innanzitutto lei: occhioni turchesi, capelli biondi, orecchini scintillanti, il portamento di quelle donne naturalmente eleganti che non fanno nessuna fatica a conservarsi magre – al contrario di quelle che, come me, mangiano tre mandorle al giorno e al terzo mese di dieta capiscono perfettamente le ragioni di Unabomber –, la voce soave a cui attribuisci una provenienza altolocata. Del resto, il suo romanzo è stato accusato di essere il perfetto prodotto di una borghesuccia media, mi ha confidato un po’ piccata, ma non è così. E forse poco importa, anche se una delle discussioni che attanaglia la parte politica che mi è vicina (e simile?), con le sue regole morali che fatico ad accettare dogmaticamente, riguarda l’incapacità di separare arte e artista, l’impossibilità di godere della bellezza quando non sgorga da una fonte che ci è congeniale, nonostante a volte i ritratti più calzanti arrivino da fuori, si veda il maschio bianco cis che parla delle donne – William Somerset Maugham più di tutti –, e nonostante i sentimenti siano universali, senza genere, classe, età. L’arte può condizionare la vita e a volte ci fa compagnia, come fa questo libro, creando un ponte fra un’immaginaria dottoranda milanese bionda e chiunque senta risuonare un piccolo campanello d’allarme se si parla di sentimenti, di inadeguatezza e di mancanze. Biaggi racconta la famiglia, l’amicizia femminile e i suoi buchi, parla di sesso e della sua assenza: i social sostituiscono la vita vera, la cocaina funziona come la mela di Newton o una passeggiata nella campagna per un personaggio di Jane Austen, tutto è griffatissimo e riconoscibile come in un romanzo di Bret Easton Ellis, ma la protagonista soffre, si arrabbia e cerca una via di fuga, in modo non dissimile da tutti noi, dentro e fuori Milano.
La storia ricorda un po’ Fleabag: una giovane con un aspetto convenzionalmente piacente e un’abilità ironica fuori dal comune si barcamena all’interno di una famiglia da cui si sente respinta – madre come modello estetico impossibile, padre come autorità intellettuale, gelido ma bonario, generoso ma impassibile –, si concede (virtualmente e non) a figure maschili ineluttabili e abbastanza caricaturali da essere tra loro sovrapponibili, si sente soffocare in mezzo alle persone con cui dovrebbe riuscire a comunicare e si autopercepisce infinitamente sola. La solitudine è uno dei leitmotiv – non il principale, forse, ma certamente quello che dovrebbe riuscire a mettere a tacere qualsiasi accusa di non universalità, di fazioso snobismo shabby chic. Cosa c’è di meno chic della paura di morire soli, di non riuscire a dormire senza un altro corpo caldo accanto? Cosa c’è di più universale del disperato desiderio d’amore e del tentativo patetico e poco femminista di trovare qualcuno che riesca a volerci abbastanza bene da restare tutta la notte?
Il tipo di racconto che fa Biaggi della realtà – umana, sentimentale, culturale – è duro da digerire soprattutto per chi è parte di quella stessa bolla, cuore pulsante di tutta una rete di pensiero che sopravvive (o meno) di lavoro culturale: accademici “dandy”, curatrici d’arte dagli stivali firmati, aspiranti scrittori, pusher dei quartieri benestanti che sanno chi è Sophie Calle. Chi fa parte di questa realtà sperimenta un particolare genere di frustrazione, legato alla necessità di fingere di vivere al di sopra dei propri mezzi per poter andare avanti e non perdere la guerra al logoramento che combattono tutti coloro che aspirano a un certo lavoro “intellettuale”, connesso alle discipline umanistiche, ai libri, alla filosofia e a quel genere di argomenti interessanti per tutti alle cene e che danno agli altri l’impressione che tu non stia faticando per niente. La protagonista de Il bikini di Sylvia Plath, Eva, è una dottoranda in Filosofia dell’arte e studia la performance femminista. Deve scrivere la tesi, a cui non sembra riuscire a trovare una valida conclusione, un po’ perché è sempre fatta di cocaina, un po’ perché – e questo è un tasto dolente per quasi tutti noi aspiranti accademici – è in ansia, un’ansia costante, costellata di piccole nevrosi – la masturbazione compulsiva, le liste, lo “showing off intellettuale” – che le impediscono di sedersi e scrivere tranquillamente, pensa a troppe cose insieme, e a nessuna con chiarezza. Intanto il tempo passa, e quello a sua disposizione è sempre meno: per trovare una soluzione cerca scorciatoie, sorride al suo professore con lo studio pieno di piante, si riduce a inventare una conclusione brillante solo quando primeggiare non è più così importante. Produci, consuma, scrivi e cerca di calmarti.
L’accademia stessa è punteggiata di tic che riescono a individuare con chiarezza tutti quelli che sfiorano questo mondo o che vorrebbero: la costante verifica, il check a cui si è sottoposti che ha a che fare in gran parte col lavoro, ma anche con l’immagine di sé che si è in grado di trasmettere e che non deve mai eccedere, deviare o stranire chi potrebbe, in futuro, procurarci un lavoro. Eva si sente sempre osservata e, forse, proprio per questo il suo aspetto è sempre inappuntabile: non è un caso che la prima cosa che il suo relatore le dice durante un ricevimento è: “Che bel rossetto che ha su!”. Il padre della protagonista, docente universitario di successo, è un caposaldo di quel patriarcato negazionista che tormenta la sua vita sentimentale: una cultura sterminata, un cervello brillante e la più totale incapacità di far sentire apprezzata chi gli sta sotto. Non è facile essere figlia d’arte, soprattutto se chi fa l’arte non ti vuole.
Essere desiderata, poi, è il grande puntello di Eva/Giada e di tutte noi cresciute col doppio modello della strafica da copertina – e le supermodelle degli anni Novanta (Claudia Schiffer, Amber Valletta, Kate Moss), citate a più riprese, ne sono l’epitome – e dell’intellettuale femminista – Hannah Arendt, Virginia Woolf, la stessa Sylvia Plath – che rifugge il compromesso, la disonestà intellettuale, il patriarcato: il giudizio maschile conta solo a letto. Eva è reduce da Giovanni, fidanzato violento e verboso, sedotta da Alberto, artista hipster di periferia, e innamorata di Ludovico, giovane uomo con cui fa sexting senza averci mai scambiato una parola, ed è ossessionata dall’immagine del corpo che riesce a trasmettergli. Nonostante la bidimensionalità del rapporto, bisogna fugare ogni dubbio circa la sua somiglianza con Chloë Sevigny, la tonicità dei suoi glutei, la biondezza luminosa dei suoi capelli. Anche da femministe siamo un prodotto e dobbiamo venderci al meglio per avere una testimonianza del nostro valore, altrimenti non esiste e noi spariamo con esso. La protagonista di Biaggi si sente passata al microscopio: tutti la osservano, fra filtri Instagram e cruda realtà (finzionale) e quasi nessuno cerca di smascherarla, nonostante i suoi tentativi di farsi vedere per com’è davvero. Se si innamora, il rapporto è troppo precario per poter essere in divenire; se ha una conversazione fra amici, le tocca omettere la risposta al “come stai?”; persino il sexting – pratica remota e teoricamente liberatoria – è teso nello sforzo di essere all’altezza di enormi aspettative, un po’ sue, un po’ del padre accademico. Non a caso, il romanzo avrebbe dovuto intitolarsi Daddy Issues, come la newsletter tra l’inchiesta e la stand-up comedy che l’autrice scrive e spedisce ai suoi fan, ma forse Il bikini di Sylvia Plath rende meglio l’idea: una donna che preferisce essere sexy piuttosto che invisibile, perché sa che tanto verrà giudicata con crudeltà e freddezza da chi del padre prende il posto.
Nel romanzo di Biaggi, tutti gli uomini possono essere incanalati in una definizione, proprio come il padre della protagonista: una conventicola di giudici implacabili, presenze ondivaghe e preoccupanti, fantasmi con cui fare i conti di notte. L’amore è una possibilità, ma meno probabile di un rifiuto o della coda lunga di quello che oggi nobilitiamo chiamandolo ghosting. Ti amo finché non mi annoio, sembrano dire tutti i bei faccini sbarbati di fresco che fanno capolino fra le pagine del libro, ma non annoiarmi è compito tuo e non devi mai soccombere alle tue debolezze, pena il mio abbandono. Eva ci prova: infarcisce i suoi discorsi di riferimenti coltissimi e battute frizzanti, sceglie il vino giusto, sfoggia un catalogo di capacità sessuali da fare invidia a un aggregatore pornografico. Forse si diverte, eppure non si rilassa mai. Del resto, “l’amore implica sempre un postulato d’insistenza, come lo shopping online; ti manca sempre qualcosa per essere felice, che sia un letto rotondo con dei petali di rosa sopra, una vasca idromassaggio con illuminazione cromoterapica, un orgasmo vaginale o, più semplicemente, i soldi sul conto Paypal”.
Anche il femminismo di Eva è malinconico, dubbioso, a metà: troppo sola per riuscire ad amare le altre donne o a provare rabbia per loro, la protagonista di Biaggi non cavalca nessuna rivoluzione femminista, non abbraccia istanze ed è attratta da uomini autoritari e patriarcali, anche quando negazionisti. Aspira a subire umiliazioni simboliche, si presta a pratiche sessuali che non la rendono felice né la emancipano, su tutte il “pompino foucauldiano” nei bagni della Fondazione Prada, l’esercizio maschile di un tipo specifico di forza in grado di farle perdere la dignità e il senso di sicurezza senza alterare i suoi sentimenti e i suoi desideri:
Ludovico era stato ancora una volta spietato con me, ma i miei sentimenti per lui erano rimasti straordinariamente e pateticamente immutati. E credo che fosse proprio questo senso dello straordinario mischiato al patetico che mi fece alzare in piedi dal pavimento del bagno, invece di restare lì accasciata a disperarmi tutta la sera. Anzi, forse i miei sentimenti per lui si erano addirittura rafforzati.
Dunque, Eva non si libera del desiderio maschile, trasgredendo tanto dalle norme patriarcali quanto dall’emancipazione femminista. Se cambia e imprime una svolta alla sua vita, lo fa solo per se stessa: la pace sessuale e sentimentale coincide con “la prima volta in cui ho deciso da chi farmi guardare”. Ma non c’è pace e nemmeno un vero e proprio lieto fine, perché tutto è in trasformazione, con più ironia che rabbia. Chi considera violentissimo l’effetto che il patriarcato ha sulla rappresentazione femminile non può fare pace con questa mezza misura, né col dubbio che, forse, essere guardate ci piaccia persino più di essere felici.