Ogni volta che Sofia deve consegnarmi un pezzo, mi scrive che è incasinatissima, ma spera di farcela, deve solo trovare un minuto di tempo, perché vuole scrivere bene questa cosa, ha avuto un’idea ma deve capire se riesce. Di solito, mi fa dubitare fino all’ultimo che riuscirà a consegnare e, anche quando lo ha ormai fatto, mi rimane il fiato corto come se avessimo fatto una corsa insieme. Ce l’abbiamo fatta, siamo a bordo dell’intercity e non ci siamo scordate il portafoglio a casa. La frenesia che precede i suoi pezzi è anche la frenesia che sentite nei suoi pezzi, è un caos benevolo e un po’ cazzone, di chi sembra non prendersi mai sul serio, nonostante poi rimanga al centro delle proprie considerazioni. I pezzi di Sofia sembrano sempre pezzi veloci, scritti al posto del pezzo meditato che invece vorrebbe scrivere, come se avesse passato ore a scervellarsi di fronte allo schermo o a comporre un pezzo accademico e poi avesse aperto un documento vuoto e scritto tutto quello che le passava per la testa. Oppure fosse tornata tardi da un appuntamento e si fosse messa davanti al pc, stanca e sfinita, ma con una deadline da rispettare. Ci sono tante immagini dentro, come le “scimmie malevole che infilano la camicia nei pantaloni” o la gatta-giavellotto, tutte cose che dicono cos’è il grigio mentecattismo meglio di un pezzo meditato, ma che lasciano come trafelati. Mi ricordano la prima volta che ho incontrato Sofia a Bologna, in un luglio caldissimo: ci siamo sedute a un bar e, senza esserci mai viste prima, parlato per un’ora di cose intime e strutturali, saltando tutti i convenevoli, le cortesie e poi siamo corse alla sua bicicletta perché aveva un convegno. Sofia è sempre ai convegni, ma quello che scrive sembra in reazione ai convegni, sembra tempo rubato alla forma. Una volta le ho detto che non si capisce mai bene cosa voglia dire, ma forse questo è il punto, è riuscire a stare con lei in questa corsa folle verso nessuna destinazione precisa. Qualsiasi cosa sia è sempre meglio che pagare il canone Rai.
– Sara Marzullo
Amore e rabbia
di Sofia Torre
Sto scrivendo un libro sull’amore. Mi sono lasciata di recente, e quindi la parte di libro che faccio più fatica a scrivere è quella sulla fine delle storie, non tanto perché mi sento abbandonata (cosa che comunque, specialmente di sera, quando mi rannicchio a letto da sola, succede), quanto perché generalmente appena mi siedo davanti al mio lunghissimo file e tento di buttare giù qualche riga intelligente prima mi viene il nervoso e poi mi arrabbio moltissimo. L’amore distrugge, devasta, ossessiona. L’amore fa ammalare, deprimere e sentire soli. Ma non dimentichiamoci, soprattutto, che l’amore fa incazzare e fa incazzare perché gli esseri umani sono sostanzialmente delle scimmie malevole che infilano la camicia nei pantaloni, non lavano i piatti quando tocca a loro e poi li becchi pure ad ascoltare Jovanotti. L’amore fa male perché finisce, è fisiologico, ma quello poi passa ed è un pensiero che comunque ha una sua eleganza. Il melodramma, il dolore, Anna Karenina che si butta sotto a un treno, Emma Bovary e il veleno per topi, Robert Redford che non ama abbastanza Barbra Streisand e preferisce andare in barca.
Una questione ben diversa è quella che riguarda l’elemento del ridicolo, decisamente più diffuso e comprensibilmente più difficile da raccontare. Nella mia arrabbiatura ho ricordato tutte le volte che una storia d’amore è finita male: praticamente sempre. Ho cercato di ricordare dettagli eleganti e tristi, e invece ecco un breve compendio delle cose che mi hanno fatta incazzare: uno sosteneva che i miei capezzoli fossero costituiti al novanta per cento dello stesso tipo di pelle che ricopriva il suo pene e il restante dieci per cento di una membrana di cui solo sua madre (podologa) conosceva il nome. Uno mi ha detto di non chiamarlo, quella settimana, che doveva andare in viaggio di lavoro, e poi è saltato fuori che era in viaggio di nozze. Uno si è messo a piangere post coito e mi ha confessato di odiare le donne, tutte le donne, ma soprattutto me. Uno, mentre stavamo decidendo cosa andare a vedere al cinema, ha preso la mia gatta e l’ha lanciata come un giavellotto. Uno mi ha proposto di organizzare una specie di threesome con mia sorella e, quando gli ho fatto notare la vaga incestuosità del suo desiderio, ha risposto “Ma tanto non ti assomiglia”. Tutti questi, in ogni caso, mi hanno fatto incazzare meno di quelli che hanno semplicemente smesso di farsi sentire e vedere, “ghostando”, per usare un termine tecnico che non fa altro che nobilitare un comportamento immaturo e francamente idiota con un anglicismo. Ah, il ghosting. Ne hanno scritto in tanti, alcuni definendolo “un trauma”, altri spiegando cosa fare per difendersi (niente, cosa vuoi fare? Se qualcuno sparisce, nel migliore dei casi non ti spiegherà perché è sparito; semplice: non è lì e dunque non parla), altri stanno ancora collegando questo comportamento al declino inarrestabile della civiltà occidentale. Nel mio libro, mi premuro di fornire un’analisi più esauriente e di mostrare quanto sono astuta e quanto è complesso il mio pensiero, ma credo che nel breve periodo siano più utili i consigli sentimentali spicci.
Cosa fare quando qualcuno ti ghosta: gli affari propri. Si sopravvive? Certamente. Qual è la risposta all’atomizzazione sentimentale e alla precarietà emotiva di quest’epoca delle passioni tristi? Smettere di frequentare mentecatti. È sempre necessario leggere le complessità del reale, decostruire la sfera sociale, ecc.? Non se ti relazioni con dei mentecatti. Tu sparisci senza fornire spiegazioni? Io ti etichetto come mentecatto. Marameo.
Sparire senza fornire spiegazioni significa soprattutto che non sei in grado di fornire spiegazioni e non hai la fantasia necessaria a inventare qualche stronzata trionfale. In un momento culturale in cui inseguiamo ossessivamente gli anni Settanta e la fantasia al potere, soffrire a causa di un grigio mentecattismo è una contraddizione in termini. Io, che ho un enorme complesso di Edipo, scelgo di aspirare al meglio. Quando ero piccola e chiedevo a mio padre di raccontarmi una favola, lui, che è un uomo elegante, invece di dirmi “non ne ho voglia” o di ignorarmi, mi diceva sempre: “Non posso, sono morto”. Sono così stufa del trauma e di questa narrazione lamentosa degli abbandoni che mi ha fatto persino ridere la Soncini, che non amo, che commentava la proposta di legge contro il ghosting di un deputato delle Filippine con un lapidario “Se mi lasci ti denunzio”. La proposta recita così:
Il ghosting – quando qualcuno tronca ogni forma di comunicazione – può rappresentare, per la persona “ghostata”, una forma di esaurimento mentale, fisico ed emotivo. Studi hanno dimostrato che una qualsivoglia forma di rifiuto sociale può attivare gli stessi meccanismi nel cervello del dolore fisico, il che significa che c’è un legame biologico tra il rifiuto e il dolore. Questo vale sia per gli amici sia per le relazioni amorose.
Potremmo aprire una parentesi su quanto sia pericoloso il connubio fra legge e morale (ma lo faccio già nel libro), quindi ripropongo l’ultimo consiglio sentimentale di questa settimana, da leggere come un mantra, e di nuovo con le immortali parole di mio padre: “lasciarsi è comunque meglio che pagare il canone Rai”.