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Rosi Braidotti è intervenuta nel dibattito sul presunto femminismo di Giorgia Meloni la scorsa settimana scrivendo che “il femminismo è un movimento trasformativo, non solo egalitario. Si basa su principi fondamentali, che sono etici ancor prima di diventare politici: la solidarietà, per esempio, tra donne, ma anche con il popolo Lgbtq+. E anche solidarietà intersezionale cioè tra classi, razza, etnicità, religione, generazioni ecc. Molteplici strati di differenze che si arricchiscono e si rinforzano a vicenda”. Ho inoltrato via WhatsApp questo trafiletto ad amici che so condividere il mio fastidio per la sua retorica da catechista (e il suo strenuo sostegno al PD) commentando con tono di scherno: “La famosa solidarietà tra le classi!”. E provando una grande nostalgia per i tempi in cui a nessuno sarebbe saltata in mente una cosa del genere. Tra le classi c’era un conflitto aperto e chiaramente identificabile. È una nostalgia che mi sembra racconti anche Ivan: quella per la chiarezza, la comprensibilità di un mondo in cui dare un nome alle cose era più facile, ci si divideva sulle linee delle barricate ma sapendo tutti cosa ne andava, cosa comportavano, cosa significavano. Ridateci un tempo in cui nonostante (o forse proprio grazie al-) le divisioni parlavamo tutti la stessa lingua. Anche a costo di prenderci un pugno in faccia.
Al netto del fatto che con tutta probabilità sia Ivan che il corriere di cui racconta qui sono probabilmente entrambi lavoratori precari, e la mia nostalgica e rassicurante certezza su che cosa sono le classi vacilla. E sospetto, ma non so se sia meglio o peggio, che neanche ai tempi delle barricate sarebbe stata poi così granitica.
– Elisa Cuter
Follonica
di Ivan Carozzi
Una mattina d’estate entro al bar della stazione per prendere un caffè. Proprio di fronte a me, al bancone, un altro cliente si accinge a bere un caffè. È un uomo sulla trentina. Indossa una polo grigia a maniche corte, un paio di pantaloni con i tasconi e scarpe marroncine antinfortunistiche. Potrebbe essere un corriere che ha appena parcheggiato per fare cinque minuti di pausa. Ha una schiena enorme, muscolosa, scolpita. Incute un certo timore. Finché c’è questo tizio a prendere il caffè, mi sento un po’ in soggezione. Esito ad avvicinarmi e a chiedere anch’io un caffè. Noto che il barista lo tratta con riguardo. È chiaro che anche il barista prova un po’ di paura, anche per via dei tatuaggi che l’uomo ha sulle braccia. Ho la sensazione che il barista voglia esibire un certo rispetto nei confronti di questo cliente, un po’ come si mostra rispetto per un superiore gerarchico. Meglio tenerselo buono. Nel bar regna una grande pace. Ascolto il ronzio discreto del frigo e i passi del barista dietro il bancone. Sono nel cuore più profondo dell’estate. Mi colpisce una scritta in stampatello tatuata sulla nuca rasata del cliente: “COLPEVOLE”. Su entrambe le braccia ha il tatuaggio di due ampie ragnatele che gli avvolgono i gomiti abbronzati. Il resto delle braccia è pieno di tatuaggi.
Vedo il muso di un lupo disegnato di profilo e una pistola nera che si staglia in perpendicolare sull’interno dell’avambraccio. Non è una pistola generica.
Il disegno è preciso e l’intenzione, probabilmente, è di raffigurare un modello in particolare di revolver. Forse una Walther PPK, la pistola usata nella Germania degli anni Trenta. La Walther PPK fu anche la pistola utilizzata da Adolf Hitler per togliersi la vita il 30 aprile 1945. Sono molto incuriosito dalle decine di segni che l’uomo porta sul corpo. Intravedo sul bicipite il ritratto di un volto maschile, ma non sono abbastanza vicino per capire se rappresenta o meno un personaggio storico. L’uomo beve con calma, centellinando il caffè mentre scambia qualche parola col barista. Approfitto di questo lasso di tempo, durante il quale resto un passo indietro, alle sue spalle, ben riparato e senza fare il minimo rumore, per poter spiare e decifrare gli altri tatuaggi, sperando che la mia curiosità non venga intercettata. La scritta “COLPEVOLE” è disegnata sulla porzione superiore della nuca, mentre nella parte inferiore vedo un codice a barre e sotto il codice a barre una scritta sbiadita. L’inchiostro ha ceduto e il colore nero di un tempo stinge verso una tonalità incerta tra il blu e il verde, come certe alghe marine della costa bretone quando scintillano al sole, il cui colore viene detto “glaz”. Mi pare che la scritta sia “FABBRICATO IN ITALIA”, ma forse mi sbaglio, anche perché in quella zona ci sono delle piccole grinze che rendono più difficile la decifrazione. Poi, a coprire interamente la fascia di pelle sul bicipite destro, vedo un altro simbolo: è una svastica, dura, netta, asciutta, inequivocabile, nera e grande come un pugno. Non ha i rebbi sottili come la svastica che quest’estate ho visto tatuata sul petto di un tizio in Sicilia. Non è inscritta in un cerchio, come nella bandiera del Terzo Reich. La circonda un’area di epidermide pulita, come un prato ben tagliato, che esalta la geometria della croce. La leggera inclinazione dei rebbi verso destra crea l’illusione di un moto rotatorio che conferisce ancora più forza al simbolo. Il simbolo della svastica ha una natura schietta e decisa, simile a quella di una voce che pronuncia un comando. Di fronte a una svastica non si discute. Si deve soltanto obbedire. Alla fine decido di avvicinarmi al bancone. “Posso avere un caffè?”. Ho in mano una copia arrotolata del quotidiano Il Manifesto, un giornale comunista. È scritto in piccolo sopra la testata: “quotidiano comunista”. Per un istante ho il dubbio che l’uomo tatuato possa far caso al fatto che ho con me un giornale e che magari potrebbe accorgersi che si tratta proprio di una copia del Manifesto, quotidiano che si dichiara comunista, nero su bianco, e quindi l’uomo potrebbe iniziare a guardarmi con sospetto e magari a provocarmi o spintonarmi. Il dubbio dura appena qualche secondo, poi ritengo che no, non devo preoccuparmi, perché sono finiti i tempi in cui allo sguardo delle persone comuni capitava di posarsi sul tuo quotidiano di carta e a seconda del foglio che eri abituato a comprare si faceva un’idea su chi eri, sul tuo orientamento politico, anche perché sono finiti i tempi in cui le persone non solo avevano l’abitudine di comprare un giornale, ma avevano una minima idea dello schieramento e dell’area culturale a cui appartenevano questo o quel giornale.
Sono finiti quei tempi: lo si dice da un pezzo, da quindici anni, da vent’anni, ma ora sono certo che stanno finendo, che siamo proprio agli sgoccioli, all’esaurimento. Quasi nessuno legge più i giornali e non si capisce come possano sopravvivere le poche edicole ancora aperte. Oso affermare che i giornali sono diventati in qualche modo invisibili, privi di consistenza, non vengono più percepiti, intendo proprio come oggetti fisici, materiali. Possono entrare nel campo visivo di un individuo, ma di fatto la presenza non viene rilevata. Non parlano più, non emettono più alcun segnale. E infatti, forte di questa convinzione, prendo la mia copia del Manifesto e ne appoggio un lembo sul bancone, per iniziare a leggere la colonnina dell’editoriale mentre bevo il caffè. Si tratta di un commento della direttrice del giornale alla campagna elettorale in corso. Compaiono i nomi di alcuni cosiddetti big. L’editoriale è critico verso la scelta di Carlo Calenda di rompere con Enrico Letta ed è ancora più critica verso la precedente decisione di Enrico Letta di non allearsi con il Movimento 5 Stelle. L’uomo con la pistola e la svastica disegnate sulle braccia non si accorge di nulla, quel pezzo di carta purtroppo o per fortuna non esiste ai suoi occhi, non è più un segno, è impercettibile, e per un istante provo l’illusione di vivere in un mondo surreale, per quanto auspicabile, dove un lettore di un quotidiano comunista può sorseggiare il caffè in pace e armonia, accanto a un essere umano con una svastica e una Walther PPK disegnate sulle braccia. Finisco il caffè e nel silenzio sento di nuovo i passi del barista sulla tavola dietro il bancone. Vorrei che al termine dell’estate, ci fosse di nuovo un’estate. Me ne vado al binario per prendere il treno delle 9:53 diretto a Follonica. Non vedo l’ora di salire sul vagone e leggere tutto il giornale, dalla prima all’ultima pagina, e quando sarò arrivato alla fine, inizierò con l’altro quotidiano che ho con me nello zaino. Non vedo l’ora di arrivare a Follonica, dove non sono mai stato.