Anche a me capita di fare congetture sulle persone che conosco (o anche su un leader politico, su un artista, sul titolare di una trattoria dove vado spesso, insomma su chiunque) a partire dai dati su cui ragiona il testo di Sara. Mi è capitato di chiedermi: quella certa persona ha un fratello, una sorella o è figlio unico? E se ha un fratello o una sorella, chi è il minore dei due? E quanti anni passano tra l’uno e l’altro? E poi provo a capire in che modo il dato può aver influenzato la formazione di quella persona, come può aver accentuato un tratto caratteriale o spinto la sua vita verso una direzione o l’altra. Nel caso del titolare di un ristorante, il rapporto con il fratello e la sorella potrebbe perfino aver segretamente determinato quella scelta iniziale, istintiva, che ha condizionato la disposizione dei tavoli in sala (ipotesi un po’ assurda ed estrema, ma perché no?); o potrebbe averlo convinto a (non) assumere un cameriere, perché durante il colloquio, alla prima impressione, quel cameriere gli ricordava (consciamente o meno) un tipo psicologico o fisiognomico ricollegabile al fratello o alla sorella. Oppure: lo scrittore austriaco Robert Walser fu il penultimo di otto tra fratelli e sorelle; se non erro, uno o due di loro si suicidarono e, sempre se non erro, nessuno di loro ebbe figli. Mi chiedo: come mai? Ci sarà una ragione per cui nessuno degli otto fratelli e sorelle si è riprodotto? E non è per lo meno suggestivo ipotizzare l’esistenza di un legame, di uno schema di fondo, tra l’estinzione della famiglia Walser e il particolare genere di libri e storie di Walser, cioè libri e storie che spesso non chiudono e non vanno da nessuna parte? I microgrammi di Walser, cioè i manoscritti in cui si sforzava di scrivere in modo sempre più piccolo e illeggibile, non costituiscono un’immagine perfetta per rappresentare un destino di estinzione, sparizione e riassorbimento nel nulla? E la stessa fotografia del cadavere di Robert Walser, caduto in mezzo alla neve fresca il giorno di Natale del 1956, come un corpo sdraiato nel candore di un foglio bianco, non è, di nuovo, un’immagine che in modo poetico ed efficace richiama un destino familiare segnato dalla scomparsa del suo intero nucleo? Sempre che non mi sbagli. Mi sembrava di aver letto questa particolarità degli otto fratelli Walser in un libro, anni fa, ma su internet non sono riuscito a verificare. Magari i fratelli e le sorelle Walser hanno fatto un sacco di figli e hanno decine di nipoti, che si chiamano Oscar e Anna, e vivono in deliziose villette circondate da una natura verdissima, popolata di scoiattoli e caprioli.
– Ivan Carozzi
O Brother, Where Art Thou?
di Sara Marzullo
Luca è volato dall’altra parte del mondo per concludere il suo podcast. Doveva parlare di una casa di campagna di famiglia, costruita dai suoi nonni per i figli e i nipoti dei figli, per vivere tutti insieme e che ora è praticamente disabitata. Doveva parlare di questo, invece adesso parla di suo fratello. Hanno dieci anni di differenza, così quando il maggiore se ne è andato di casa per studiare, Luca era solo un bambino: non c’è mai davvero stato un momento in cui abbiano potuto giocare insieme, conoscersi, sapere che carattere avessero o cosa avessero ereditato dal padre e dalla madre. Suo fratello, racconta, vive in un paese lontano, in cui la differenza tra la classe ricca e il resto del paese è enorme: era andato a lavorare là, quando si stava costruendo una carriera nell’ambito delle relazioni diplomatiche, ma poi aveva deciso di rimanerci. Adesso vive piuttosto lontano dalla capitale del paese, insieme alla moglie e ai figli e poco resta del grande arco narrativo che la sua carriera prima scolastica e poi lavorativa sembrava stesse disegnando. Luca voleva scoprire qualcosa della sua famiglia, sapere cosa era stato prima di lui, scavare all’indietro e alla fine invece le sue energie sono state spese per sapere chi è suo fratello: scavare in orizzontale e poi riempire la distanza, gettare ponti.
Quando ci penso, mi sembra incredibile e splendido che invece di lasciar stare e far fare alla distanza quello che fa la distanza, abbia deciso di andare a trovare il fratello. È un po’ come se all’improvviso avesse scoperto di avere un fratello, invece che aver provato a ricucire un rapporto, anche se avevano vissuto per anni nella stessa casa e con gli stessi genitori; la loro estraneità si era prodotta nel tempo e si era in qualche modo calcificata, ma, come una frattura minore curata male, avrebbero continuato a potersi muovere. Lui però aveva deciso di non farlo, di convertire la freddezza in altro, di rompere lo strato superiore per scoprire cosa si muoveva sotto. Avrebbe riconosciuto le stesse pressioni a cui era stato sottoposto lui? Cosa lo aveva portato lontano, così lontano? Il fratello aveva assorbito la maggior parte dei colpi, così che lui ne era stato tutto sommato immune?
Pensarlo come progetto di scrittura crea dei limiti e impone delle restrizioni che facilitano la ricostruzione del rapporto. Le domande sono come possiamo scrivere, cosa posso dire in questa puntata e non chi sei, perché sei andato via e non sei mai tornato. Se il fratello accetta di partecipare, devono lavorare insieme.

Il mio ragazzo mi ha fatto notare che mi interesso moltissimo alle storie di fratelli – quando me lo ha detto mi è sembrato vero, anche se non mi venivano in mente episodi specifici. Mi sono resa conto però che quando voglio conoscere una persona, capire chi è e, soprattutto, chi era un tempo, come è cambiata, di tutti i rapporti, quello con i fratelli è quello più appassionante da indagare, perché più o meno chiunque è disposto a parlarne. Non è come quello, spesso travagliato o paziente, con i genitori, né quello con i partner o gli ex, in cui qualsiasi domanda sembra essere invadente o produrre risposte spinose di cui è difficile venire a capo. I fratelli non si scelgono, ma non siamo davvero costretti ad averci a che fare per sempre, sono pari ma anche famiglia – sono frutto delle stesse pressioni familiari, capiscono di cosa parli quando ti riferisci a com’era stare a casa, senza dover spiegare troppo. Hanno vissuto i nostri stessi natali e ascoltato le stesse storie che abbiamo sentito milioni di volte; poi, però, quasi sempre prendono altre strade, si trasformano in esseri umani con cui abbiamo progressivamente meno in comune, tranne lo stesso passato.
Mi appassionano perché sono rapporti che accompagnano la vita, la indirizzano senza deformarla, perché dicono qualcosa su chi eravamo e su come siamo diventati, sono rapporti che evolvono anche nostro malgrado, diversamente dalle amicizie d’infanzia, che spesso restano cristallizzate nel momento in cui si sono formate, quando ancora il rapporto era vivo e fertile. Persino la freddezza degli allontanamenti, l’incomprensione che producono è diversa, perché in qualche modo sono rapporti che non possiamo perdere, proprio perché non li abbiamo scelti o voluti – sono capitati, insomma. E dicono quanto siamo disposti a dare perché quella diversità non sia solo distanza.
Un paio di mesi fa a Barcellona ho conosciuto l’amica di un’amica; vive là col marito e le due figlie in un quartiere modello pieno di piste ciclabili e bambini che giocano per strada. La mia amica le ha chiesto come andava con le bambine, di cui aveva conosciuto solo la maggiore. La maggiore era, mi raccontava la mia amica, così bella che chiunque diceva che avrebbe dovuto recitare negli spot. Beatrice aveva riso e risposto che la seconda era molto meno perfetta, che gli sconosciuti non la fermavano per strada e si domandava se avrebbe mai patito questa mancanza di attenzione. Poi ci ha raccontato che tutta l’ansia di avere un figlio era scomparsa all’arrivo della seconda. Non abbiamo più troppa paura, non stiamo tutto il tempo lì a vedere cosa fa, come sta – in parte perché se ce l’avevano fatta con la prima, sarebbero riusciti nell’impresa un’altra volta, perché stavolta avevano l’esperienza dalla loro, tanto che a volte avevano paura di sottovalutare le situazioni. In parte perché con due figlie avevano meno tempo.
Beatrice è una secondogenita di un fratello maggiore, che in famiglia aveva causato qualche problema, che non aveva rispettato il progetto di vita che gli era stato assegnato; lei, un po’ come compensazione, non aveva mai dato pensiero a nessuno, però aveva studiato, ottenuto risultati invidiabili e fatto la carriera che voleva, in un ambito imprevedibile e precario. Era proprio per lavoro che aveva dovuto trasferirsi da una parte all’altra del globo, ma lo aveva fatto con fiducia e senso dell’avventura, si era sentita più libera di prendere decisioni per sé senza che queste significassero l’adesione o la rottura con la propria famiglia. Il fratello viveva ancora nella città di origine e, anche se forse avrebbe voluto andare via, non ne aveva mai avuto il coraggio. Era come se il fratello avesse assorbito le pressioni familiari e, invece di andarsene dall’altra parte del mondo, fosse rimasto immobile, lasciando però Beatrice libera di scegliere per sé.
Forse anche per le figlie di Beatrice sarebbe andata così – o forse no, chissà, ma mi sembrava di vedere che quell’attenzione del mondo sulla figlia maggiore avrebbe avuto un impatto che poteva anche non essere del tutto positivo. Se tutto il mondo ti guarda e ti aspetta, è più probabile diventare introversi? O è il contrario? E l’introversione è sempre un segno di immobilità? Ci ragionavo da figlia minore: la mia estroversione dice che considero il mondo fuori più importante, più interessante di me. Mi sento ‘minore’ non solo nel rapporto tra sorelle, ma in assoluto, perciò anche più impermeabile alle proiezioni e ai comandi familiari. Essere minore mi ha reso meno autocosciente, almeno in senso relativo, così mi sento libera di prendere decisioni, di imbarcarmi in avventure di cui non conosco la destinazione, perché la mia capacità di farcela è seconda al desiderio di vedere cosa accade poi. Sono attratta dallo stesso tipo di persone.
Mentre cercavo informazioni per una cosa a cui sto lavorando, ho scoperto questo libro di Klaus Theweleit sull’oggetto d’amore, dal titolo All you need is love. Un articolo di Artforum del 1995, l’anno di uscita, di Whitney Davis riflette che “si è tentati di vedere la scelta dell’oggetto [d’amore] semplicemente come ripetizione delle relazioni del bambino con i propri genitori” (cioè che il partner è colui che ci permette di tornare nella stessa posizione che avevamo da figli), ma che la teoria di Theweleit vorrebbe allontanarsi un po’ da questo freudianesimo semplificato. Rifacendosi al lavoro dello psicoanalista americano Lloyd de Mause sulle ‘psico-classi’, Theweleit sostiene che “per la maggior parte delle persone la rete di trasmissione del livello fraterno gioca un ruolo più significativo nelle scelte amorose e nelle forme coniugali rispetto alle costellazioni del triangolo edipico, cioè il livello madre-padre-bambino”. In sostanza, conclude, i fratelli maggiori saranno attratti dai fratelli maggiori, quelli di mezzo da quelli di mezzo, i minori dai minori, proprio in virtù del modo in cui i genitori li hanno trattati, in quanto apparterranno a ‘psico-classi’ diverse.
Non so quanto Theweleit abbia ragione o cosa voglia dire con psico-classi, con rete di trasmissione e quanto non sia solo una critica della lettura edipica freudiana, quanto deformante sia cioè la lente che usa e a che scopo – ma trovo affascinante la sua intuizione, con tutte le eccezioni che può prevedere. Mi suona plausibile, se non del tutto, per poter spiegare certe dinamiche, certe attrazioni, sicuramente le vicinanze che sento. Non so però quanto psicanalizzare tutto sia poi utile, anche se questo di sicuro non mi ferma dal farlo. Mi dico, non potrebbe essere vero che i primogeniti vogliano per esempio mantenere il loro ruolo predominante e responsabile nelle relazioni successive, scegliendo come partner fratelli minori eccentrici e, dal loro punto di vista, impulsivi? Resta vero anche se tra i fratelli c’è una tale differenza di età per cui il fratello più piccolo cresce come fosse quasi un figlio unico? I figli unici sono sempre degli egocentrici? Lottano per la loro sopravvivenza o pensano di averne diritto sempre?
Veronica, Francesco, voi che avete scritto libri dove compaiono i vostri fratelli e sorelle, da che parte state? In che posizione vi trovate, a quale psico-classe appartenete?