Una volta una mia amica mi ha detto che invidiava l’assenza di sensi di colpa dei miei personaggi. Non mi ero mai resa conto di mettere in scena personaggi privi di sensi di colpa, ma in verità non me ne rendevo conto nemmeno di fronte alla sua osservazione. Forse non li esplicitavo, avevo pensato dentro di me, forse in letteratura il senso di colpa o è il centro della questione o non esiste. Sicuramente un ottimo spunto per un pezzo che non avrei mai scritto. Ad ogni modo, avevo preso il commento come un’insinuazione, una sorta di accusa verso i miei personaggi, e la cosa mi irritava, sebbene la mia amica mi assicurasse di intenderlo come un complimento. A quel punto, quasi per autogiustificarmi di una mancanza a me invisibile, avevo azzardato un’ipotesi interpretativa: possibile che sublimassi attraverso i miei personaggi l’angoscia mortale dei miei sensi di colpa?
“Ma tu non hai sensi di colpa” aveva ribattuto lei placida. Un altro complimento, dal suo punto di vista.
La conversazione era andata avanti per un po’. Come potete immaginare cercare di convincere qualcuno di avere dei sensi di colpa è un’operazione piuttosto frustrante. Significa cercare di convincere un’altra persona di provare dolore. Non ci interessa avere ragione, ci interessa essere creduti. Un atto di fede, un affratellamento o assorellamento nella costernazione. Quindi, in definitiva, a che serve discutere?
Ma il punto è proprio quello: se ci sentiamo in colpa per qualcosa e non facciamo niente a riguardo, qual è la differenza tra avere un senso di colpa e non avercelo?
Intuendo le potenzialità disastrose del gorgo dove ci eravamo andate a ficcare, io e la mia amica avevamo saggiamente deciso di cambiare argomento. Per sempre.
A volte è capitato che lei ritirasse fuori l’aneddoto per riderci su, io non sono mai stata capace di riderci su. Mi sento in colpa persino per questo.
– Veronica Raimo
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Fare ammenda
di Valentina Della Seta
8. Abbiamo fatto un elenco di tutte le persone cui abbiamo fatto del male e siamo diventati pronti a rimediare ai danni recati loro.
9. Abbiamo fatto direttamente ammenda verso tali persone, laddove possibile, tranne quando, così facendo, avremmo potuto recare danno a loro oppure ad altri.
A sei anni avevo una cotta per Marco, il fratellino minore di un anno di Sabina, la mia migliore amica. Abitavamo sullo stesso pianerottolo. Un pomeriggio in cui ci annoiavamo, a casa di Sabina, abbiamo preso Marco, lo abbiamo spogliato e lo abbiamo ricoperto di pallini disegnati con i pennarelli. Sul momento non ci sembrava crudele averlo trasformato in una Pimpa multicolore. Lui forse piangeva, noi ridevamo, esaltate dal nostro potere. Poi ci siamo stufate, non era rimasto neanche un centimetro libero per un altro pallino. Lo abbiamo lasciato lì, attraversando di corsa il pianerottolo per andare a casa mia. Ci eravamo accorte che stavano per iniziare i cartoni animati. L’altro giorno ho digitato il nome di Marco su Instagram, è venuta fuori la pagina di un Mr. Leather gay con più di ventimila follower. In quasi tutte le foto è vestito, dalle bretelle agli stivali, di pelle nera. In qualcuna mostra la pianta del piede nudo, in primo piano, per i suoi adoratori. Non sono sicura che si tratti della stessa persona, ma a questo punto mi sento responsabile di aver seminato in lui, con la mia minuscola molestia, un succulento feticismo.
Alle elementari mi sono resa conto per la prima volta di avere una disfunzione del desiderio. Mia madre lo sapeva: «Vuoi sempre quello che non hai» (evito di approfondire il fatto che quello che avrei voluto e non avevo era soprattutto lei, per non trasformare un pezzo di letteratura autobiografica di scarto in una seduta di psicoanalisi). Si riferiva più che altro a gomme da cancellare e gusti di gelato, ma applicavo lo stesso schema anche ai bambini che mi piacevano. Mi ero messa con Daniele, e mi piaceva Igor. Con Igor e Daniele giocavamo a “gattini dispersi nel bosco” nel giardino della scuola. Ci nascondevamo nei cespugli, in due, mentre il terzo andava a caccia di provviste. Nell’attesa, potevamo darci dei bacetti sulle labbra, rapidi, con gli occhi chiusi. La voglia era mescolata al disgusto. Io finivo sempre con Daniele. Ma un pomeriggio ho fatto in modo di restare nel cespuglio con Igor e appena Daniele si è allontanato, l’ho baciato. Igor è diventato rosso fuoco, è scappato via. Per vendicarmi, ho detto a Daniele che era stato Igor a provarci con me e per un pomeriggio li ho fatti litigare. Il giorno dopo era tutto come prima, ma se ci penso mi sento ancora in colpa.
Alle medie avevo i capelli corti e non piacevo a nessuno. A me piacevano tutti. Tenevo una specie di diario, un quaderno con le pagine bianche senza righe o quadretti. Sulla prima avevo scritto: mi piace Luca. Sulla seconda: mi piace Valerio. E poi: Mi piace Giulio. Mi piace Gianluca. Mi piace Alessio. Mi piace Matteo. Qualche disegnino. E altri mi piace: Massimo, Francesco, Mattia, Lorenzo, Tommaso. Non so perché voglio fare ammenda sulle mie cotte seriali compulsive, oltretutto la maggior parte di questi ragazzi non ne ha mai saputo nulla. Anche quando ho pugnalato il quaderno, l’ho devastato di tratti di penna violenti, ho strappato i fogli e li ho buttati nel cesso o in una fontana. Ci ho raccolto la cacca del cane.
Al liceo piacevo a tutti. Scoprirlo è stato come una febbre, infatti il primo anno mi hanno bocciato. Passavo il tempo alle assemblee per inciuciare. Praticavo la geometria dell’insoddisfazione a forma di triangolo. Avevo fatto in modo di conquistare Lorenzo e Tommaso (non gli stessi del quadernino alle medie), senza sapere chi dei due mi interessasse veramente. Erano entrambi belli, gentili, intelligenti, femministi, suonavano il basso e la chitarra. Io volevo solo tenerli sulle spine, e avvicinarmi a uno dei due per struggermi su quello da cui mi ero allontanata. Avevo letto Jules e Jim, avevo visto il film, mi sentivo Jeanne Moreau ma ero solo una bugiarda triste che passava il tempo a invidiare le vite degli altri.
Luca aveva venticinque anni, una moto d’epoca, mi aspettava all’uscita di scuola per portarmi nel suo monolocale di lusso in centro, dove mi offriva qualche droga, mi spogliava e mi raccontava storie per rendersi affascinante. È andata avanti per anni, a intermittenza, con l’unica costante che non gli ho mai detto la verità sulla noia solida, come un prurito dentro l’orecchio che non sai come grattare, che mi provocavano i suoi discorsi. E su come il suo bel corpo atletico, le mani, il cazzo perfetto, la bocca carnosa e morbida non mi abbiano mai dato piacere. Ho sempre fatto finta. Però non ho ancora capito se questa è una cosa per cui fare ammenda, e soprattutto con chi.
Andrea lavorava nella moda, era geloso della mia ombra, avrebbe voluto che non mi si avvicinasse troppo. Diceva: «Stai bene così magra», in un periodo in cui non mangiavo quasi niente. Un giorno mi ha mandato un biglietto aereo per raggiungerlo a Parigi. Ma quando sono arrivata lì è partito per il nord, lasciandomi a casa di B., un ragazzo francese che gli organizzava le location. Pioveva, B. aveva un vecchio motorino scassato che scivolava rumoroso lungo i viali, abbiamo bevuto il Pastis, condiviso un pollo arrosto con le patate, abbiamo fatto l’amore fino all’alba sulla moquette pulciosa del suo appartamento.
F. mi portava i cornetti a casa la mattina presto. Rispondevo al citofono, dicevo: «Sono in ritardo con un lavoro, ti chiamo dopo, scusa. Lasciameli sul tappetino davanti alla porta se ti va». Poi aspettavo che se ne andasse, preparavo due tazze di caffè e me le portavo a letto per fare colazione nuda con S.
La mia amica A. restava spesso a casa mia. Una notte abbiamo rimorchiato M. a una festa, gli abbiamo fatto intendere che avrebbe dormito con noi. Una volta a casa ci siamo date un paio di baci mentre ci guardava, poi siamo uscite dalla stanza con la scusa di andare in bagno e lo abbiamo chiuso dentro, a chiave. Siamo andate al fast food aperto tutta la notte, gli abbiamo preso una porzione di patatine, ce le siamo mangiate durante il viaggio di ritorno in macchina.
G. mi portava al Bingo e pagava le cartelle; le vincite le dividevamo a metà. Una sera sono uscita con V. e guardandolo fare manovra con la faccia seria al volante della sua utilitaria ho pensato: «Con questo non ci esco più». Ma mi sentivo sola. F. voleva fare il regista, mi invitava a uscire, ci andavo perché speravo di incontrare A., il suo amico attore (F. un giorno mi ha detto: «A. ti ha incontrato in palestra, non lo hai visto? Ha detto che gli piacevi, prima di vederti sbagliare tutta la coreografia di aerobica»). Qualche mese dopo uscivo con Z., un musicista. Tanto per cambiare, mi piaceva il suo amico Q. Una sera eravamo in macchina, Q. e io seduti dietro. Mentre Z. guidava con accanto il fratello, Q. si è messo a frugare nella mia borsa della palestra, che era appoggiata sul sedile in mezzo a noi. Tirava fuori i vestiti e li annusava, a un certo punto ha preso le mie mutandine, le ha passate sotto il naso prima di mettersele in tasca. Io ho allungato la mano per accarezzare l’orecchio di Z. Ci guardava dallo specchietto retrovisore, non si era accorto di niente.