Lavoro, professione, occupazione, impegno. Lavorare, fatturare, portare a casa la pagnotta. Timbrare il cartellino – quando ne hai uno –, definire la propria identità attraverso il lavoro, giustificare la propria esistenza attraverso il lavoro. Quello che fai è quello che sei. Quello che ti dà da campare ti determina, ti definisce, ti si incolla dentro e diventa un’etichetta di cui non riesci a liberarti. Gelataia, cameriera, professoressa. Lattoniere, portiere notturno, muratore, scaffalista. Commesse, come quelle di cui parla Elisa Cuter in questo numero di Gua Sha. Il titolo può trarre in inganno: potrebbe essere un modo semplicione di strizzare l’occhio a un altolocato spettatore, “Ah, guarda queste oche giulive che vendono cose fra una storia d’amore finita male e una scollatura inappropriata”, ma il messaggio è tutt’altro, una denuncia pop di un dramma collettivo, stare a galla nel capitalismo senza perdersi di vista. Siamo più del nostro lavoro, rivendicavano le operaie della Mirafiori nel Sessantotto, prima del Job’s Act e dell’onda lunga della distruzione dei diritti dei lavoratori, preannunciando la necessità di un tentativo di liberarsi, sprigionando pensiero creativo, di “vedere chi eri”, come nella poesia di Cees Nooteboom. Commesse, Elisa Cuter lo fa partendo dal particolare, e funziona. Nella sua Global Labour History, Marcel den Linden mette in guardia da quello che definisce un eccessivo uso della microstoria nell’analisi delle lotte dei lavoratori, invitando invece a guardare i grandi snodi della storia mondiale. Eppure, se la lezione femminista dell’autocoscienza ha insegnato qualcosa, è che partire dal sé – specie se si tratta di un sé collettivo, come quello della classe sociale precaria e bistrattata delle commesse – serve a riappropriarsi della propria storia – lavorativa, amorosa, perfino psicoanalitica. Commesse è più di un prodotto pop per intrattenere le sorelle Cuter, è un atto di riappropriazione del sé oltre il lavoro.
– Sofia Torre
Commesse di tutto il mondo
di Elisa Cuter
“Abbiamo due possibilità”, mi ha annunciato mia sorella una sera quando sono stata sua ospite qualche settimana fa. “Finire di vedere Red oppure... guardare la prima puntata di Commesse”. “Se vogliamo regredire all’infanzia, che almeno sia la nostra!”: il film d’animazione è stato immediatamente scartato e abbiamo iniziato quello che pensavamo un banale rewatch di una delle cose peggiori offerte dalla televisione in chiaro, di quelli che mi concedo spesso per spegnere il cervello. Occuparsi di audiovisivi per lavoro porta inevitabilmente a non riuscire più a godersi un film o una serie senza pensare già a come utilizzarli nella propria ricerca, o senza guardarli con occhio eccessivamente critico. O almeno, raccontarmi l’esistenza di questa deformazione professionale è la scusa ufficiale che ho usato per trascorrere il mio tempo libero tenendo in sottofondo le sei stagioni di Paso adelante, le altrettante di Dawson’s Creek, ma soprattutto tutti i 286 episodi da 50 minuti in media ciascuno di Un medico in famiglia. Cose improponibili ma inoffensive, dal sapore rassicurante dell’infanzia e soprattutto di cui è letteralmente impossibile scrivere senza aver l’impressione di sparare sulla Croce Rossa. Anche stavolta con Commesse ero convinta di andare sul sicuro. E invece, eccomi qua.
Tanto per cominciare mi sono accorta di aver visto da piccola probabilmente solo alcuni episodi della seconda stagione, mentre ignoravo completamente la prima, vero capolavoro con un cast stellare. Non tanto le all star Sabrina Ferilli, Nancy Brilli, Veronica Pivetti e Anna Valle, quanto i personaggi secondari (Massimo Ciavarro! Gigliola Cinquetti! Marina – figlia di Ave – Ninchi! Ray Lovelock – per sempre nel mio cuore da quando in Avere vent’anni di Fernando di Leo interpretava uno squatter troppo fatto per reagire alle avances di Lilli Carati –!) e non ultima la produzione di Edwige Fenech!!! Il tempo concessomi dai titoli per realizzare tutto ciò è decisamente eccessivo, ma già in essi si comprende la vena neorealista dello sceneggiato. Su aria di violini, dopo una steadicam che si aggira come un fantasma tra gli abiti della boutique “a cento metri da Piazza di Spagna” dove lavorano le protagoniste, ci troviamo in esterna: un lungo dolly su una strada palesemente riprodotta in studio con dei netturbini al lavoro, che vedremo animarsi di passanti solo dopo una dissolvenza incrociata che segnala il passaggio dalla notte al giorno. A questo punto i titoli sfumano, e delle traballanti riprese aeree di Roma (sulle quali incomprensibilmente sentiamo il suono delle pale degli elicotteri, neanche le nostre povere commesse fossero ricercate dalla polizia!) ci introducono nella narrazione. Ma il simbolismo della sigla introduttiva parla chiaro: il cuore è la boutique quando è vuota, è la strada quando i netturbini spazzano le strade. Le merci, algide e inerti, da un lato. I lavoratori, stanchi e sporchi, dall’altro. I passanti ben vestiti, i turisti, la superficie insomma, arrivano dopo, non ci interessano, non gli crediamo.
Con tutte le ingenuità del caso e soprattutto con una didascalicità adatta al pubblico generalista, Commesse, scritto da Laura Toscano e il marito Franco Marotta (già sceneggiatori per quegli “autori impari” che furono Lucio Fulci, Enzo G. Castellari, Sergio Martino e Massimo Dallamano), vuole parlare di lavoro. Vuole farci vedere cosa c’è dietro all’elegante vetrina di una boutique di lusso. L’indigenza, il bisogno, la fatica. E poi: disabilità, violenza sessuale, interruzioni di gravidanza, relazioni illecite, malavita, incidenti d’auto, abusi di potere, tradimenti, tossicodipendenze, pressione fiscale... nominate un dramma e in Commesse lo troverete (invano ho cercato un po’ di comic relief, ma comparirà praticamente solo nella seconda stagione, e con esiti pessimi). In ogni caso, ogni evento drammatico sarà volto a farvi ammirare la tenacia e il coraggio con cui sono pronte a fronteggiarlo le impavide protagoniste, tutte donne normali, donne del popolo, tutte diverse l’una dall’altra ma tutte accomunate dal loro lavoro di dipendenti. Il motore della trama è la “razionalizzazione” imposta dal consiglio d’amministrazione della linea di moda (la presumibilmente americana “Jack Norton”) con sede nella malvagia Milano, e tutta la serie è anche un piccolo saggio su come in quegli anni sta cambiando il mondo del lavoro, avviandosi verso la precarietà generale. E se è pur vero che il lieto fine consisterà per le commesse nel diventare loro stesse imprenditrici acquistando la boutique, è anche vero che niente di questo lieto fine sarebbe possibile senza la coscienza di classe che le medesime dimostrano in tutta la serie e che è raro trovare oggi in narrazioni così convenzionali. Emblematico lo scambio, nel secondo episodio, tra Roberta (Nancy Brilli) e la nuova titolare Francesca (Caterina Vertova), che la convoca nel suo ufficio dopo aver paventato il rischio di licenziamenti imminenti.
“Vede Roberta, io contavo molto su di lei, ma onestamente mi aspettavo una maggior collaborazione, tutto qua”.
“Senta, oggi è domenica. Siamo tutti qui a lavorare solo perché lei ce l’ha chiesto, che altro vuole?”
“Lo so che vi sto chiedendo molto... ma vede, qui i problemi sono tanti e gravi, e lei con la sua esperienza dovrebbe capirlo...”
“E allora?”
“Dobbiamo lavorare come in una squadra, se vogliamo salvare questo negozio. Qui ognuna di noi combatte per il suo posto”.
A questo punto la faccia di Nancy Brilli (che finora ha già risposto con flemma esasperata) mentre si trattiene dal riderle in faccia merita uno screenshot.
“Mi pareva che mancasse qualcosa! Eh si perché quando le cose vanno male siamo ‘tutti una grande famiglia’, poi quando si aggiustano: grazie arrivederci”.
“Senta, Roberta...”
“NO SENTA LEI. Qui noi ci stiamo giocando il posto, lei che cosa rischia? Non gliene importa un accidente di chi siamo, che cosa facciamo, come viviamo, che cosa pensiamo. La vuole sapere una cosa? Prima che arrivasse lei noi ci volevamo tutti bene. Adesso ci guardiamo con sospetto perché nessuno di noi si può permettere di perdere questo stipendio. Io lavoro in questo negozio da quando avevo vent’anni e adesso arriva lei e con una semplice ‘telefonata a Milano’ mi può cacciare via? ...ma faccia come le pare! Solo che io, saldi o non saldi, mi prendo due giorni di permesso”.
“ROBERTA PER CORTESIA...”
Ma non fa praticamente in tempo a terminare, Brilli esce sbattendo la porta. Caterina Vertova: F4 (basita).
Anche se il personaggio di Roberta è quello che spicca per leadership, a ciascun personaggio viene dedicato un episodio da protagonista, che trova un suo senso solo nell’insieme. Non è una storia di empowering individuale come se ne vedono tante oggi, è una storia corale, molto più vicina a Roma ore 11 o Le ragazze di Piazza di Spagna, nella quale peraltro i destini delle protagoniste si rinsaldano piuttosto che sfaldarsi come (più profeticamente, va detto) annunciavano i film di quell’epoca. Accanto a archetipi femminili senza tempo che potrebbero essere presi di peso dagli anni Cinquanta (la madre coraggio Sabrina Ferilli, con marito disoccupato e figlio con sindrome di down; la “zitella” – trentaduenne – Veronica Pivetti; la pratica donna in carriera Nancy Brilli, indurita dai lunghi anni in cui è stata l’amante del capo; la studentessa romantica ma ambiziosa e stakanovista Anna Valle) troviamo anche novità avanguardistiche (siamo del resto in pieno Governo D’Alema!) come l’omosessuale Romeo (Franco Castellano, unico commesso maschio), che convive serenamente alla luce del sole con il suo giovane compagno. Sogna però di diventare padre, cosa che lo porta a rapire (temporaneamente) una neonata trovata in un cassonetto. È la storyline più surreale, ma anche quella che apre a interrogativi più evidentemente moderni, oltre a regalarci alcune delle scene più visivamente provocatorie e allucinate, come questa di un gruppo di prostitute all’Eur che sembra uscita da un b-movie dei tardi Settanta.
Ma non siamo né negli anni Cinquanta né nei Settanta. La prima stagione è del 1999 (sebbene anche dal ritmo e dalla fotografia si direbbe molto prima – e magari in qualche paese sovietico. Si vede che era targato RAI e non Mediaset!). Piccolo inciso a questo proposito: in dieci anni che abito all’estero non avevo mai avvertito l’esigenza di procurarmi una VPN a pagamento, ma la necessità di continuare a godere di Commesse ha fatto sì che procedessi prontamente all’acquisto per collegarmi a RaiPlay, che fedele al proprio palinsesto propone nel pratico menu a tendina non solo le due stagioni, ma anche le repliche – che constano evidentemente dei medesimi episodi. Anche qui, una scelta di stile e un rigore vintage che non posso che apprezzare.
La seconda stagione tenta invano, specie nella regia, di modernizzarsi: ritmo “serrato”, colonna sonora in inglese maccheronico su sonorità latinoamericane, e soprattutto una scrittura meno strutturata, più sfilacciata. Come i destini dei lavoratori, del resto, che (nella serie come nella retorica politica in real life) verranno redenti solo da un’improbabile “creatività”: già sartina a ore per arrotondare, Sabrina Ferilli scoprirà un talento da stilista, e la vecchia boutique diventerà praticamente una start-up sorta dal salvifico sodalizio di artigianato (Ferilli) e spirito imprenditoriale (Brilli). Ma ancora, come dicevo, non mancheranno una “linea comica”, e viceversa sottotrame drammatiche (in primis la violenza domestica) che finiscono male per davvero. Purtroppo “finisce male” anche il senso dell’operazione della serie stessa, e peggio ancora andrà con lo spin off, Le segretarie del sesto (no, non “del sesso”, ma io stessa continuo a chiedermi se l’allusione fosse volontaria), miniserie di soli due episodi in cui compare ancora Romeo (in cerca di lavoro, a testimonianza del fatto che anche il sogno dell’autoimprenditoria creativa è fallito), affiancato stavolta da Micaela Ramazzotti, Claudia Gerini e Tosca D’Aquino.
Che dire? Reject (capitalist) modernity, embrace tradition... (re)watch Commesse: Season 1.