Io non sono anale. Sono la persona più orale del mondo. Ho reazioni di pelle, di pancia, di cuore, sono un torrente in piena, una perfetta più uno alle serate noiose, sono incapace di stare seduta ferma e composta e ai funerali sono un disastro, mi metto a piangere anche quando non conosco il morto.
Come tutte le persone orali, bramo l’analità. Vorrei essere precisa, puntigliosa, capace di fare i puzzle e di provare piacere mentre li faccio. Vorrei sapere sempre che giorno è, non perdere pezzi e saper usare ISTINTIVAMENTE i trattini. Quindi, questo numero di Gua Sha è dedicato al culo e alle persone che amano il culo, non hanno fortuna e sanno cosa espellere. Lavina Bianca parla con Freud, Elisa Cuter e Giacomo Croci analizzano le implicazioni e la necessaria sporcizia dell’analità, Vittorio Ray ci regala perle TETTISTE e CULISTE, Giulia Scomazzon esce dal tema e Ivan Carozzi dal ristorante.
È un numero lungo, da leggere, ça va sans dire, in bagno.
– Sofia Torre
Chi dice culo dice culo
a cura di Sofia Torre
LAVINIA BIANCA: anale 9 su 10
La prima volta che sono andata a letto con un uomo avevo circa quattordici anni. Consideravo la verginità una sorta di fardello di cui sbarazzarsi, come un’adolescente cresciuta nelle periferie cambogiane, provenendo invece da un ambiente in cui il concetto di trasgredire equivaleva ad optare per i peperini in brodo in luogo delle stelline. Il mio primo fidanzato incarnava il classico prototipo di belloccio stropicciato, in grado di blandire teenager uterine a suon di felpe sdrucite, soliloqui sulle sonorità del mathcore e assoluta inettitudine sociale. Un florilegio di ostentati struggimenti post-adolescenziali le cui scaturigini erano banali: il contraccolpo per la separazione dei genitori, una carriera universitaria nell’ambito delle scienze dure naufragata, quintali di velleità frustrate, un’attitudine ai mestieri creativi (scrivere, illustrare) e tanto, troppo denaro in tasca. Il problema è che aveva 28 anni.
— Un’esperienza tutto sommato positiva, dott. Freud. Nient'affatto traumatica. Ero inebriata e lui estremamente abile e conciliante nel relazionarsi a me. Non ricordo neppure un episodio in cui mi sia sentita turbata dal gap generazionale.
— Si chiama plagio, Lavinia. Ti danno dai due ai sei anni.
Dicevo, aveva 30 anni. Ho scritto 28? Erano 30. E a 30 anni si presume tu ti sia autosignificato, abbia superato la fase del cutting coi temperini e delle scapigliature. Uccidi simbolicamente Pete Doherty e ti trasfiguri in Felix Finkbeiner. Io ero piuttosto piccola e benpensante, lui all'epoca un fallito e, chiaramente, me ne innamorai.
Il primo tentato rapporto sessuale si consumò nello studio legale della sua famiglia, del quale prese in prestito le chiavi. Si trattava di un appartamento soppalcato, piuttosto confortevole. Dopo qualche mese di effusioni mi ero messa in testa di andare al sodo. Mi stesi dunque su una moquette verosimilmente brulicante di acari, spalancai le cosce cercando di ignorare il pizzicore e gli feci cenno di procedere. Avanti, capitano. Andiamo fino in fondo.
Purtroppo la penetrazione, pratica tribale consolidata, trovò degli impedimenti. Il mio imene non voleva cedere allo sfondamento di questo piccolo ariete dalle sembianze falliche. Opponeva resistenza. Così lui si stese di fianco a me, supino e ci ritrovammo a guardare il soffitto in silenzio per un paio di minuti. Fino a che non mi sovvenne il genio. Mi rivolsi a lui e con il tono di un venditore di enciclopedie porta a porta e l’aspetto di Candy Candy gli chiesi: “Vogliamo provare da dietro?”.
Senza peraltro avere nessuna effettiva cognizione della possibilità che esistesse un dietro praticabile. Avrò ragionato in termini anatomici, supponendo che un orifizio valga l’altro? Ai posteri. Mi guardò come fossi della mucillagine. Poi rise divertito e – per qualche ragione che oggi considero celeste – declinò.
Cosa sarà passato per la testa di una ragazzina di quasi quattordici anni, vergine, per proporre al proprio ragazzo una cosa del genere?
— La fica, il culo. Cosa vuole che cambi, dott. Freud. L’essenziale era mostrarsi condiscendente alla pulsione maschile di stantuffare, liberarsi, vuotarsi, mi spiego? Non venir meno al paradigma patriarcale del sesso penetrativo, abbandonare la sessualità adolescenziale e abbracciare il piacere vaginale, non dimostrarsi frigide, mi segue?
— Non saprei Lavinia, sono Sigmund Freud e sto partecipando a questo poco fantasioso espediente narrativo controvoglia. Le mie teorie sono state largamente confutate. Pare che addirittura una donna abbia ipotizzato che l’unica stimolazione femminile possibile sia di natura clitoridea, diretta o indiretta. A questo punto, comprenderà, vale tutto.
Ad ogni modo trascorremmo insieme poco più di due anni, magnifici, in cui scoprii le gioie dell'amore in pasticche, della salsa greca sul pane caldo e del levonorgestrel, fino a che non cominciò ad accusarmi d’esser borghese e classista, d’avere un retroterra borghese e classista, prospettive borghesi e classiste, una famiglia borghese e classista. Mi produssi in uno dei miei migliori numeri oratori, mutuando stralci dai libri di Updike che allora mi divertivo a citare senza comprendere e gli spiegai che, laddove non fossi stata ostaggio di un microcosmo borghese e classista, probabilmente non lo avrei neppure considerato e avrei preso il volo con un benzinaio evoluto.
Il suo appartamento mansardato era il perfetto palcoscenico di una perfetta tragedia naturalistica strindbergiana. Io ero la signorina Julie, lui il valletto. Ma io non volevo uccidermi. Volevo uccidere lui, perché la sua infelicità era odiosamente contaminante. Sì, mi aveva iniziata all'amore montandomi su obsoleti seppur romantici pattini a quattro rotelle, ma io ero ormai pronta a piroettare sola e leziosa sui rollerblade della vita.
Quasi vent’anni dopo, vent’anni di virtuosismi da schettinatrice, sono uscita con un tizio che mi ha invitata a fare aperitivo. Ho bevuto a stomaco vuoto circa una bottiglia di Cerasuolo d’Abruzzo, avendo lui ingollato nervosamente tutto ciò che di edibile ci era stato servito, ho terminato la serata a casa sua, caracollando fino alla stanza da letto che ho raggiunto per stendermi e cercare di riavermi e me lo sono ritrovato a peso morto steso sopra, avvolto in un accappatoio dell’Inter. Il tempo di chiedergli cosa esattamente stesse facendo e la sua eiaculazione era già lì che gocciolava tra i miei glutei.
“Scusa, volevo solo provare da dietro”.
La situazione di partenza si ripresenta, modificata, nella conclusione. Credo si chiami narrazione circolare. Tipica delle fiabe o di novelle come La felicità di Guy de Maupassant, che racconta il tema dell’amore duraturo.
Non tanto poté il danno, quanto la beffa.
ELISA CUTER, anale 8 su 10
In un saggio di D.A. Miller, L’educazione del giovane Elio: “Call Me By Your Name”, tradotto da Franco Moretti nella raccolta Bellissimo (nottetempo, 2022), trovo una frase che riassume il senso di tutto il saggio, critico contro l’operazione cosmetica ed edulcorante a cui viene sottoposta la rappresentazione mainstream dell’omosessualità: “Un cazzo si porta sempre dietro della merda”. Si tratta di un aforisma di Guy Hocquenghem, da Les culs énergumenès, preso da questo estratto (in questa traduzione): “Poiché un cazzo in culo si porta sempre dietro un po’ di merda, a forza di deporre la nostra sborra nella merda o di smerdare il cazzo che esce da dentro di noi possiamo dire di essere le bombe puzzolenti del gioco sociale. Inculati, siamo gli unici che cagano al contrario. Ma non bisognerebbe credere che essendo i meno appropriati, siamo anche i meno proprietari, che essendo i più dissoluti siamo anche i meno competitivi, che essendo i più macchinici siamo i meno romantici, che essendo i più marginali siamo i meno borghesi”. In effetti fa abbastanza cagare rendersi conto che la propria marginalità, o la discriminazione subìta, non fa di noi i redentori del mondo, e manco degli esseri perfetti. Ci si rimane proprio di merda. Quindi tutto quel dolore non è servito a niente? Questa domanda si può formulare anche così: ma allora Cristo è morto in croce per niente? In questa formulazione appare chiaro quanto rispondere “esatto!” sia liberatorio. Solo se riconosciamo che Dio è morto (inutilmente) diventa valido il principio “lotta anale contro il capitale”: non perché il culo è democratico – da dove viene questa? mi sembra un principio risaputo, ma non trovo la citazione originale. Googlo e vedo che lo dicono in molti, sia perché pare che “mentre con le tette ci nasci, il culo te lo fai in palestra”, sia nel senso in cui intendevo io, ovvero che ce l’hanno tuttə indipendentemente dal sesso. Anche questa persona che ho scoperto googlando lo sostiene: Il culo è democratico. Adoro il discorso che fa lei, e non ha tutti i torti. Ma il punto non è questo. Il senso del culo come concetto anticapitalista risiede non nel suo essere democratico e egualitario, quanto nel suo essere sporco di merda.
GIACOMO CROCI (anale come Elisa Cuter)
Ieri Elisa mi manda il suo pezzo per Gua Sha – penso immediatamente a una scena di Pompe funebri (Jean Genet). In realtà me la ricordavo sbagliata, letto una quindicina di anni fa credo, ma tant’è: un condannato a morte (sarebbe stato corretto: il cappellano del carcere) preso da un attacco di diarrea si rintana in un bagno, si pulisce il – appunto – culo con le dita, poi pulisce le proprie dita sul legno della porta. Ora, avevo nel ricordo completamente mischiato i dettagli ma poco conta, il succo rimane: la virgola di merda che l’uomo pulendosi le mani disegna sulla porta va a decorare come una fiammella un cuore ritagliato nel legno – un buco a forma di cuore – che prende così le sembianze del sacro cuore di Gesù. Il cuore prende fuoco, manifestazione miracolosa di dio nel buco sporco. Non sapendo che lezione trarre dalla suggestione, ma perché ripulire una scena così fiammeggiante portandola a un concetto?, non volevo comunque ricadere nella dialettica un po’ a buon mercato di merda e divino (Artaud feat. Derrida). Grazie al cielo – divinissimo miracolo! – la realtà viene in soccorso. Mi imbatto in un post Instagram della pagina di Einaudi, che pubblicizza l’ultima fatica di Michela Murgia: God save the queer. Catechismo femminista e cita:
“Dio mi ama come sono e come vorrò essere, oppure sarò sempre un disordine oggettivo nell’ordine della creazione, un’anomalia di programmazione destinata a stare ai margini, sempre guardata con sospetto, un peccato ambulante per il solo fatto di esistere così come sono?”.
Ora, a parte che vengo da Schelling, per cui il dio si rivela proprio nello scompiglio della creazione. Ma soprattutto: che strazio è voler smettere di fare anomalia? E che privilegio, al contrario, tenersi un culo fiammante.
MARCO PIGNETTI: anale 10 su 10
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IL CULO VINCE SEMPRE
Esiste un oggetto (per la teoria dell’inorganico) che potrebbe mettere d’accordo chiunque: il culo. Al di là di ogni orientamento sessuale e identità di genere abbiamo il culo, che è universale, l’unica e sola schwa con la quale declinarci. A Napoli direbbero: «È ‘na malatia».
E in realtà questo genere di adorazione estrema dovrebbe essere una parafilia: la pigofilia.
Essendo affetto da questo male, riesco ad amare le persone partendo dal culo: mi accorgo dell’esistenza di un soggetto solo dopo aver scannerizzato bene l’oggetto del mio desiderio. Direbbe Brass «ognuno è il culo che ha» e «mostrami il tuo culo e ti dirò chi sei».
Nonostante il feticismo per le natiche, vivo questa ossessione in modo quasi del tutto voyeuristico, quindi, da buon cuck, provo con pochissimi sforzi a darmi un tono sottoponendo le mie chiappe alla luce pulsata per eliminare i peli in eccesso e, addirittura, una volta alla settimana, ricordo di fare una ventina di squat. Risultati? Zero. La pigrizia supera ogni forma di desiderio ma, nonostante tutto, permane la divinizzazione per la carne.
Allora sogno di essere morto in un incidente stradale e a farmi resuscitare c’è François Sagat in versione zombie che mi scopa. Parliamo di L.A. Zombie (2010) di Bruce LaBruce e del culo spettacolare del protagonista di cui dovremmo fare un anal fleshlight (in realtà l’hanno fatto).
Immagino che ognuno di voi abbia almeno una volta nella vita progettato il proprio suicidio. Direte: cosa c’entra? La risposta è nelle opere di Namio Harukawa. Sono abbastanza basso e gracilino da riuscire ad immedesimarmi perfettamente nei personaggi che vengono maltrattati a suon di facesitting da mastodontiche donne senza scrupoli. In questo caso il culo diventa la fine, l’ultimo respiro prima dell’asfissia e il sogno di ogni pratica femdom. Se intendessimo il culo come dono, non potremmo non citare La donna sadiana di Angela Carter, che ci ricorda un’ulteriore offerta corporale:
I libertini considerano le feci un dono. “Lasciami mangiare il tuo dono” dice il cliente coprofago della prostituta-narratrice, Duclos, nelle Centoventi giornate di Sodoma. Ma questi doni vengono sempre estorti. I doni sono brutalmente strappati ai possessori con la violenza, prodotti su ordinazione, per contratto nei bordelli e dalla stessa Juliette, o per intimidazioni nel castello. I libertini usurpano la fondamentale libertà fisiologica del corpo. Essi monopolizzano le elementari produzioni corporali degli altri e arbitrariamente regolano le funzioni fisiologiche involontarie.
Il culo non è solo piacere, è anche terrore. Una paura tanto irragionevole che, negli anni ’70, bisogna provare a contrastarla con il terrorismo anale del Commando Saucisson. Un terrorismo inevitabile se pensiamo che è quasi impossibile sfiorare con un ditino l’ano di un maschio etero. Qualora dovesse essere sfiorato il sacro orifizio, le loro saranno urla pietose, infantili, un dolore percepito paragonabile al parto. E la paura non è causata dalla merda: il blocco psicofisico è totalizzante.
Bisogna armarsi, lubrificare il mignolo e penetrare gli ani. Il culo, in tale delirio, ci mostra una forma di amore ad intermittenza: erotizzazione di quello altrui e segregazione del proprio.
Il culo è volto (magari). Vale a dire che è il volto delle persone che fanno dell’oggettificazione culturale (magari sfociassero in quella sessuale) una prassi. Pensare che la lettura de Il Capitale di Karl Marx abbia più valore della visione dei glutei della Venere Callipigia è una pratica che aborro. Si tratta di devozione per la culturina da vessillo, per l’accaparramento di un partner che conosca qualche tenera poesia, una mostruosità che prende spesso il nome di sapiosessualità. E in questi non-umani il culo coincide con il volto, o meglio la bocca è l’ano, come spiegherebbe Harry G. Frankfurt:
Quando caratterizziamo un discorso come «aria fritta», implichiamo che dalla bocca di chi parla esca solo vapore. Il suo discorso è vuoto, senza sostanza o contenuto. Di conseguenza, il suo uso del linguaggio non contribuisce allo scopo al quale pretende di servire. Non comunica più informazioni che se il parlante avesse semplicemente espirato. Tra parentesi, ci sono somiglianze tra aria (fritta) e gli escrementi, così da rendere l’aria fritta un equivalente particolarmente appropriato delle stronzate. Proprio come l’aria fritta è un discorso svuotato di qualunque contenuto informativo, così gli escrementi sono materia da cui è stato rimosso qualunque nutrimento.
Chi sottovaluta l’ascesi provocata dal culo assume le sembianze oniriche della classe dominante rappresentata in Society (1989) da Brian Yuzna: veri e propri sederi parlanti. Siamo soggiogati, divorati e fagocitati da una società che prova a propinarci la bellezza dell’anima, lo spessore dell’intelletto inesistente e la cura dei cuori attraverso l’arte, invece di potenziare la presenza di spogliarellisti travestiti da vigili del fuoco o di ballerine in stile Non è la Rai (o qualsiasi altro cliché si ritenga fondamentale per la prosecuzione della specie). E dunque, se la servitù della meritocrazia e della cultura come posa deve essere libera di parlare, che abbia almeno una bella faccia da culo.
Il culo è contrario alla vita. Fiumi di spermatozoi hanno vagato inutilmente nei nostri retti alla ricerca di ovociti da fecondare, e fortunatamente la risposta è sempre la stessa: qui troverete il vostro eterno riposo. E riteniamo vera la conclusione di uno dei filosofi più allegri della contemporaneità, David Benatar, quando inveisce contro le notti che generano prole: «[…] perché il sesso sia moralmente accettabile non deve essere riproduttivo. In altri termini, il sesso può essere moralmente accettabile solo se non è riproduttivo».
Il culo è la cosa più bella del mondo. Tra le ingiustizie contro le quali bisognerebbe combattere (lo dico soprattutto ai woke) potrebbe configurarsi la mancanza di un numero spropositato di poesie, canzoni, libri, film, partiti, bandiere, nazioni, pianeti e altre decine di questioni interamente dedicate alla sua esistenza. Lo splendore del fondoschiena è universalmente riconosciuto, ma allo stesso tempo ne viene soffocato l’elogio, oppure la sua esistenza trova giustificazione grazie a qualche patetico aforisma di accompagnamento su Instagram. Cos’è una persona oltre il suo culo? Non ci interessa e dobbiamo pretendere che nessuno venga a chiederci se ci sia dell’altro.
VITTORIO RAY: non può dirci quanto è anale, o ci rivelerebbe se è CULISTA o TETTISTA
La differenza tra contento e felice è che contento ha a che fare con una condizione materiale, sensoriale, mentre felice ha a che fare con la trascendenza e con l’infinito. La felicità, quindi, più che una condizione è una posizione, una mistica, una tensione.
In alcuni manicomi di provincia serpeggia da qualche secolo una teoria che divide gli uomini in tettisti e culisti (da qui in poi T e C, per evitare di ripetere volgarità). Le definizioni sono autoesplicative, i due oggetti del desiderio non sono meri accumuli di adipe e ghiandole ma sistemi di pensiero opposti (in particolare, porte antipodali per accedere alla metafisica), e ogni maschio sufficientemente onesto e in confidenza con voi saprà dirvi quale delle due nature alberga in lui.
Gli arabi, invece. Tagliando un po’ con l'accetta, i maschi arabi si innamorano sostanzialmente delle ombre. Del seno hanno congetturato le forme solo durante l’allattamento, con la definizione oculare che si può avere a quell’età. Del fondoschiena a stento hanno raccolto qualche fotogramma durante il parto. Da lì in poi, è stato solo un sognare. Nonostante i nostri tentativi di corruzione coloniale, le poche statistiche che abbiamo ci confermano che in quei paesi non si fa neanche grande uso del porno (stando a Pornhub, tra i primi 20 paesi con più utenti non c’è nessun paese arabo). Questi soldati della moderazione e della speculazione, non avendo accesso alla nostra accecante abbondanza materiale, non la cercano neanche in forma virtuale. Desiderano certamente come noi, e cosa ne fanno di questo desiderio? Disegnano, ne parlano con gli amici, parlano da soli, ne pensano, si scrivono delle lettere, coltivano l’arte della calligrafia e della miniatura.
Cari amici miei, spero di non scadere nel più facile orientalismo, ma a casa mia questo è accettare e comprendere la croce dell’esistenza. Questo è vero Tettismo, questo è vero Culismo (scusate, avevamo detto che non avremmo ripetuto). Beati quelli che, senza troppo vedere, avranno capito.
GIULIA SCOMAZZON: anale quanto i veneti
Per andare a lavorare Gi prende il ritalin, l’olanzapina, il depakin, la paroxetina e, a volte, qualche goccia di valium. Gi si reca al lavoro solo tre mattine alla settimana e senza le medicine rimarrebbe paralizzata dal terrore dentro la sua piccola utilitaria a due passi dal luogo in cui dovrebbe lavorare e, inevitabilmente, interagire con gli altri. Quando torna a casa prende la seconda dose giornaliera di calmanti e antipsicotici e poi dorme dalle 15 alle 18 di un sonno che è vuoto e buio come lei si immagina sia la morte. Gi è convinta di doversi imbottire di farmaci per fare ciò che la maggioranza riesce a fare dopo un caffè forte perché non ha avuto culo nella vita e di questo se ne fa una colpa perché ha sempre sentito dire che la fortuna premia gli audaci e lei non ha mai avuto nemmeno un grammo di audacia da scambiare con un po’ di culo. Per alleviare il senso di colpa, Gi ripensa alle vite dei suoi genitori, alla madre operaia morta a trent’anni e al padre muratore morto a pochi mesi dal pensionamento, e si dice che deve esistere un principio di ereditarietà del culo che l’ha resa immune alla fortuna. A dirla tutta, però, Gi ha sempre fatto di tutto per nascondersi dal destino che dispensa culo e sfiga a chi gli va incontro. Quando era ancora adolescente immaginava per sé l’ultima riga dell’epitaffio di George Gray: “È una barca che anela al mare eppure lo teme”. Una volta adulta, Gi si è trasformata per davvero in una nave con le vele ammainate, inutilizzata ed esposta alle intemperie per troppi anni, di sicuro abbastanza per darle l’impressione di aver sprecato la sua giovinezza, compromettendo ciò che ne è seguito.
Gi fa sempre caso alle macchine di lusso che incrocia per strada e ogni volta le sembrano troppo numerose anche se vive in una provincia ricca del produttivo nord-est. Se nel suo conto corrente qualcuno versasse il corrispettivo in denaro di una Porsche o di una Maserati, Gi potrebbe ripagare i suoi debiti, curarsi i denti, andare da uno psicoterapeuta, cambiare le pastiglie dei freni e, più in generale, abbassare lo stato di paura costante che le stritola l’amigdala. Gi si chiede spesso se i culi seduti sui sedili delle auto di lusso siano più meritevoli del suo, anche se sa che i ricchi possono morire di morti improvvise e orribili o possono vivere vite infelici. Tra tutte le variabili che cooperano alla sfortuna dell’uomo quella economica è senza dubbio la più ingiusta e, al contempo, la più facilmente rimovibile.
Nessuno, pensa Gi, potrebbe mai sostenere il contrario, eppure i culi fortunati se ne stanno ben attaccati alla schiena di coloro che hanno ereditato un’attività redditizia, un talento o una sana etica del lavoro e non c’è classe o generazione che si senta integralmente offesa da questo stato di cose. Per Gi la fortuna ormai non è altro che il sogno di una vincita al gratta e vinci o un’eredità inattesa, qualcosa di completamente estraneo alla fantasia del merito.
IVAN CAROZZI: anale Zero
Uscito dal ristorante, in compagnia di un paio di amici, la mia attenzione è catturata da un dettaglio anatomico. Si tratta dell’ano di un cane, un barboncino. Il barboncino zampetta sul marciapiede al guinzaglio del suo padrone, proprio davanti a noi. Anche se in modi sottili e impercettibili, l’ano sembra chiudersi e poi aprirsi, chiudersi e poi di nuovo allentarsi, forse per manifestare un’intenzione, una precisa volontà di comunicare. Ho la sensazione che il barboncino sappia perfettamente di essere guardato e che cerchi di attirare su di sé l’attenzione. Si serve dell’ano per manipolare. Sembra molto orgoglioso del proprio sfintere e sembra anche vantarsi del proprio padrone, probabilmente un milanese benestante. Sono certo che i suoi occhi neri brillano di piacere ogni volta che il padrone indossa il guanto di plastica per raccogliere le sue deiezioni. «Chi è che comanda?», penserà il barboncino quando il padrone estrae con rassegnazione il guanto da una tasca. Il barboncino sventola la coda come una bandierina. Anche lo sventolio della coda sembra una tecnica per portare l’attenzione di tout le monde sull’imprescindibile orifizio del barboncino. Tutto nel barboncino parla di una vita da viziato e privilegiato, la vita di qualcuno che non ha mai lavorato. Non esistono le guerre, le inondazioni, le malattie letali, no, esiste soltanto lui e la superbia del suo ano. Per fortuna, arrivati a un semaforo, il barboncino svolta a destra insieme al padrone. Lo vedo sulle zebre, con l’ano rivolto all’insù, mentre prosegue nel suo spettacolino, sempre in cerca come un tossico di riflettori, applausi e di nutrimento per il suo ego. Il suo ego è tutto racchiuso nell’ano. Spero di non rivederlo mai più.
Leggo culo e istintivamente metto like