Non avendo uno smartphone, non ho mai visto le pubblicità di cui parla Elisa in questo pezzo e nemmeno giocato a uno di questi giochi, però mi è capitato più di una volta di parlare con qualcuno mentre ci stava giocando e dissimulava maldestramente la cosa annuendo di fronte a mie affermazioni palesemente incondivisibili. In compenso, al pari di Elisa, non ho letto L’alba di tutto e Una nuova storia (non cinica) dell’umanità, benché abbia assistito a una conversazione tra due persone che avevano letto entrambi i libri ed erano in totale disaccordo tra di loro. Il disaccordo non riguardava né il contenuto, né l’interpretazione dei libri, quanto l’eventuale legittimità a parlarne che ognuno dei due rivendicava in virtù di qualcosa di ineffabile, come accade spesso quando si rivendica qualcosa che non si sa esprimere in maniera dignitosa. Questa premessa, che sembra non mi stia portando da nessuna parte, in realtà mi ha fatto tornare in mente un episodio relativo al concetto di empatia. Una volta il conduttore di un programma televisivo d’inchiesta per il quale lavoravo mi ha urlato in faccia che non capivo un cazzo (citazione testuale: “Veronica, non capisci un cazzo”). Non capivo un cazzo perché mi rifiutavo di scrivere il copione di una puntata sulle occupazioni di casa a Roma ricorrendo all’immagine di un girone dantesco denso di sofferenza e umiliazioni. Di base mi urlava in faccia perché contrapponevo la possibilità di un’analisi vagamente sociopolitica sul disagio abitativo a una restituzione fortemente empatica del “dolore degli altri” (a parte il fatto che quel presunto “dolore degli altri” mi riguardava da vicino visto che in quel periodo stavo pensando di occupare una casa). C’era qualcosa di intimamente divertente e paradossale in un uomo più grande di te, in una posizione gerarchica superiore alla tua che ti urla in faccia e ti dice che non capisci un cazzo perché non sei abbastanza empatica, e di fatti mi veniva da ridere ed era quello che cercavo di fargli notare, ma che doveva farsene lui dell’arida dialettica di una persona non empatica?
Sono stata mandata via dal programma e il giornalista empatico non mi ha mai chiesto scusa per avermi urlato in faccia (però per fortuna sono stata pagata, visto che avevo un contratto, cosa estremamente importante per noi persone non empatiche).
Quando ho visto la puntata in questione c’era il voice-over del giornalista empatico che diceva “girone dantesco” e menzionava i famosi ratti di Roma, sempre specchio e metafora di tutto, e sempre in prima linea quando bisogna parlare di disperazione e non si vogliono usare dati. Si vedevano carrellate di donne e bambini piangenti, uomini annichiliti, e poi si vedeva anche il giornalista empatico con una mano posata sulla spalla di un occupante mentre con l’altra si asciugava una lacrima ben inquadrata.
– Veronica Raimo
Real Life
di Elisa Cuter
Non ho ancora letto David Graeber e David Wengrow L’alba di tutto, né Rutger Bregman Una nuova storia (non cinica) dell’umanità. Li considero insieme quindi solo sulla base delle loro quarte di copertina e potrei stare prendendo un granchio colossale, ma ho come la sensazione che se dovessi fare un paper accademico sul fenomeno di cui sto per parlare dovrei metterli entrambi in bibliografia. Non credo che scriverò mai davvero qualcosa di serio e documentato su quello di cui mi accingo a parlare, sebbene ci sia chi ne ha fatto della theory, ovvero Alfie Bown con Capitalismo e Candy Crush (ma non ho ancora letto neanche quello). Io non voglio parlare di videogiochi da smartphone, ma di qualcosa ancora più infimo: le pubblicità dei giochi per smartphone che mi compaiono costantemente davanti sui social, o mentre gioco ai miei giochi per smartphone da anziana signora, come appunto Candy Crush, che non ha bisogno di presentazioni, Water Sort, in cui devi riempire delle fialette di liquidi dello stesso colore (propedeutico agli scacchi, mi dice gente che ci sa giocare), o la mia ultima certamente non magnifica ossessione Woodoku (una specie di tetris meno incalzante).
Le pubblicità che appaiono tra una partita e l’altra sono quasi sempre di puzzle o “match three” in cui in sostanza quello che devi fare è sempre abbinare qualcosa su una tabella per fare scomparire la fila e progredire (ad infinitum) nel gioco, ma a supplire alla monotonia del processo arriva una abnorme narrazione nella quale il momento di attività ludica vera propria è inserita. Per accedere al progredire della trama devi risolvere i puzzle. Praticamente come se per guardare la prossima puntata di Beautiful – paragonabile per livello minimo di plot twist (lo guardavo in genere una volta a settimana quando pranzavo da mia nonna, e nei quattro episodi che mi ero persa non era successo mai niente se non una sequela di primi piani di Brooke allusiva, Ridge confuso e Stephanie oltraggiata) dovessi “sbloccarla” giocando a un rompicapo – paragonabile alla vita reale che conduceva lo spettatore medio nelle ventiquattro ore che separavano la prima fascia pomeridiana di un giorno e quello dopo, se vogliamo. La dinamica effettiva del gioco che viene presentato da queste pubblicità è talmente banale che quello su cui puntano per vendere sono le conseguenze (catastrofiche) che il tuo non saper giocare potrebbe avere sulla trama.
Le storie che vengono mostrate in questi interminabili secondi di pubblicità, sotto forma di animazioni digitali più o meno (più spesso meno) sofisticate e realistiche, sono il più delle volte una combo tra il melodramma da feuilleton ottocentesco o neorealismo rosa e fiabe horror tipo piccola fiammiferaia. Il più delle volte una donna scopre il marito con un’altra mentre si dirige verso di lui con un test di gravidanza positivo in mano, oppure viene abbandonata sull’altare (talvolta a causa del fatto che il giocatore non è riuscito a far sì che ella si lavasse adeguatamente prima delle nozze perché non ha abbinato abbastanza pietre preziose nel puzzle, o non è riuscita a far scappare il pesciolino dallo squalo azzeccando la giusta sequenza di porte chiuse o aperte, o non ha saputo girare le tessere di un mosaico in modo da far fluire l’acqua fino a delle piantine che sono morte, lasciando così intatto l’alone verde attorno alla povera figurina in computer graphic ispirata alle Bratz che si avvia fiduciosa lungo la navata della chiesa). Sconfortata, la giovane scappa su un’isola deserta, o si ri-impossessa della magione in rovina lasciatale da una nonna misteriosa, o trova impiego come sguattera in una famiglia di riccastri il cui rampollo scapolo dapprima la maltratta ma poi la ama. Il dramma però non è finito, anzi comincia qui: la dinamica della pubblicità consiste nel farti assistere a dei tentativi di gioco fallimentari.
Il giocatore simulato non azzecca nessuna mossa – mosse semplicissime, molto più elementari del livello 1 del gioco a cui giocheresti se cliccassi sullo schermo e fossi direttamente indirizzato all’app store per finalizzare l’acquisto. Lo scopo è evidentemente quello di lusingarti illudendoti di essere un genio ma credo, ancora di più, quello di farti innervosire assistendo a questa inettitudine. Farti sbottare in un qualche “ma daiiii!!!” di impazienza e frustrazione. Frustrazione è la parola chiave, perché quello che queste insipienze, questi errori grossolani, queste inadempienze causano, sono delle tragedie vere e proprie. Persone o cuccioli di animali da compagnia vengono uccisi barbaramente da ghigliottine, martelli, seghe rotanti, bestie feroci – e fin qui, niente di troppo diverso da un “game over” in 8bit, d’accordo. Ma altri drammi sono più sottili e ancora più traumatizzanti, più sulla falsariga dell’abbandono all’altare a causa del body odor di cui sopra. C’è la donna incinta che per colpa della tua imbranataggine con le sequenze di fiorellini – perché qui l’immedesimazione con il giocatore fittizio è inevitabile, ti immagini già di starci giocando tu e di pensare: com’è possibile che tu non abbia visto che proprio sopra c’era la possibilità di matcharne SEI! SEI!!!!! E tu ne hai matchate solo tre sotto e la sequenza quasi perfetta di sopra è perduta PER SEMPRE, non ricapiterà mai più! Tutta colpa della tua sbadataggine, della tua maledettissima fretta di matchare le prime che vedevi! O forse invece della tua lentezza: non sei abbastanza concentrato, poi cosa ti viene in mente di giocare in autobus, con tutte quelle distrazioni, dovresti giocarci a casa, con calma, con le cuffie come minimo… Ebbene adesso per colpa della tua superficialità CRIMINALE questa donna incinta si sta letteralmente pisciando addosso fuori dalla porta di un bagno chiuso a chiave per colpa tua che non l’hai saputo aprire, sta piangendo e si sente questo insopportabile singhiozzare umano, doppiato da un’attrice in odore di Oscar per questa impeccabile performance che trasuda impotenza e umiliazione. Un suono che ti perseguita per tutto il giorno. Come quello di quel povero bambino che, trovato rifugio in mezzo alla tormenta di neve in una casa abbandonata con la sua mamma (single, appena licenziata e sfrattata sempre per colpa tua), implora tremando e attendendo fiducioso che tu, eliminando gli aghi da una specie di labirinto, riesca a far cadere il carbone per alimentare la piccola stufa che hanno miracolosamente trovato ad attenderli come un piccolo miracolo, uno spiraglio di luce, una minuscola gioia imprevista ma provvidenziale in questi tempi di rincaro del gas.
Il tentativo a cui ti tocca assistere nei 60 secondi di inskippabile pubblicità ovviamente non va a buon fine, il bambino e la madre muoiono assiderati tra i rantoli di disperazione. O che dire del suono crepitante e sfrigolante e delle urla di quell’altra povera famigliola alla quale hai DATO FUOCO nel tuo tentativo maldestro di scaldarla con un fornelletto da campo? Perché non hai risolto il puzzle che ti avrebbe permesso di attivare l’estintore, maledetto incapace? Non ti importa niente di questo povero maggiordomo col riporto e il papillon licenziato in tronco con ben tre gemelli neonati al seguito?
Sono tutti giochi chiaramente indirizzati a un target femminile. Si capisce soprattutto dal tipo di animazione leziosa (tra lo shojo manga e la Pixar); dalle cose che devi matchare: fiorellini, gemme, caramelle; dai colori pastello o ipersaturi; dalle unghie smaltate del giocatore simulato. Più di rado mi sono capitate anche pubblicità più esplicitamente gore pensate evidentemente per un pubblico maschile. L’animazione era più realistica, i personaggi più simili a quelli di Tomb Raider o al massimo di Tekken che a quelli di Puzzle Bobble. Lì la violenza era anche maggiore, c’erano scene di contagio tramite morsi, si vedevano ferite purulente, scene di tortura, sangue ovunque eccetera. C’era sicuramente del compiacimento sadico, ma era anche molto diversa la dinamica. I personaggi stessi erano molto meno rilevanti: c’erano più scene collettive, di guerra o di orde di zombie, le figure erano praticamente sempre intere e non c’erano quasi mai primi piani. La dinamica era quella del mass shooting, dell’anonimato della vittima (ma anche del player). Funzione, non immedesimazione.
I giochi “per le femmine” invece si basano sull’empatia, puntano tutto sull’empatia, questa benedetta empatia di cui secondo molti c’è una grave carenza nella nostra società. Se solo ce ne fosse un po’ di più, signora mia!
Il binarismo di genere a cui ho accennato lascia pensare che anche l’empatia sia un sentimento appreso, che puoi stimolare attraverso l’educazione, quindi non so se questa tortura emotiva a cui vengo sottoposta perché non intendo pagare per il mio intrattenimento da smartphone possa essere usata come prova “kropotkiniana” del fatto che l’umanità non è così innatamente malvagia come siamo stati abituati a credere, che penso sia il punto se non di Graeber e Wengrow almeno di Bregman. Però, uscendo dalla dicotomia natura/cultura, quello che dimostrano queste pubblicità è sicuramente che neanche l’empatia ci salverà, se quello a cui porta è passare ancora più ore sul proprio smartphone cercando di salvare povere donne puzzolenti all’addiaccio.