Francesco: ragazzi scusate il covid mi ha un po’ atterrato non riesco a scrivere intro.
Ivan: mi sembra una buona intro. Ps: Mi ha fatto pensare il tuo pezzo Sara… io sono molto più grande di te ma altrettanto incatenato a quei 4/5 anni dell’adolescenza, nel senso che coltivo continue nostalgie, mediate da musica e film, che hanno a che fare con nichilismo ed estremismo, ma sempre con quel sapore romantico, assoluto, ecc.
Sinceramente non mi dispiace, perché l’adulto medio mi mette sempre tristezza.
Sara: non so, io ho pochissime nostalgie e mi sembra anche che l’età adulta sia un momento di complessità che mi interessa attraversare e vivere. Rispetto all’adulto medio forse hai ragione, ma per me è sempre l’assenza di momenti di passaggio, persino di riti di passaggio, che rende più medi che adulti sul lungo periodo.
ARRIVANO I COMPETITORS!
Ascoltare Olivia Rodrigo a 30 anni
di Sara Marzullo
Lo scorso novembre mi sono trovata ad ascoltare Olivia Rodrigo ogni giorno per un mese e non avevo neppure una relazione, non mi ero appena lasciata, nessuno era scappato con nessuno. Eppure, nonostante questo, niente mi ha impedito di identificarmi in tutti i singoli, di imparare che it took you two weeks / to go off and date her / Guess you didn't cheat / but you're still a traitor e cantarla con abbandono in quasi ogni momento della mia giornata. Hai capito? Due settimane, how you said you were friends? Now it sure as hell don't look like it! A’ stronzo!
Ain't it funny? / Remember I brought her up / And you told me I was paranoid canticchiavo guardandola sul palco, io che mi sono sempre chiesta se la mia cronica assenza di gelosia non sia forse un problema. C’è da dire che Sour, l’album di debutto di Olivia Rodrigo, è essenzialmente un ottimo album pop, la tipica cosa che a un certo punto ti sembra di sentire ovunque, perché effettivamente senti ovunque. Forse dovrei spiegare così la mia ossessione nei confronti di questo disco, col fatto che funziona, qualsiasi cosa voglia dire, quell’insieme di algoritmi, teoria musicale e consumi culturali spinti dall’industria dell’intrattenimento. Però c’è qualcosa che resta, che vorrei indagare, ed è l’ossessione per le ragazze giovani e tristi, per le relazioni dei liceali, che sembrano nutrire le donne della mia età, ancora più che le loro coetanee.
Perché a trent’anni mi dovrei sentire vicina a una ragazza di diciotto che canta del fatto che guida tra i sobborghi il giorno in cui ha preso la patente e piange disperata perché I know we weren't perfect / but I've never felt this way for no one? Oppure che So when you gonna tell her / That we did that, too? / She thinks it's special / But it's all reused?
Nessuna di queste situazioni ha niente a che fare con la mia vita, né quella di oggi né quella di quando avevo diciott’anni – eppure c’è una stranissima e banale forma di rassicurazione nell’ascoltare in loop il disco su una ragazza a cui viene spezzato il cuore.
Una specie di catarsi di tutte le tristezze che non sapevo di avere o il fatto che esiste una ossessione culturale per le ragazze tristi, un modello su cui io mi sono formata, che in un certo senso mi ha dato lo spazio mentale, esistenziale, sociale per diventare me stessa. Diventare matte, tristi, strane e incomprensibili è un privilegio dato alle ragazze, che non devono passare l’adolescenza a dimostrare di essere forti o invincibili come i loro coetanei – lo dicevo un po’ di tempo fa a un’allieva che mi confessava di sentirsi in crisi su tutto e a cui ho detto, nella speranza che fosse di conforto, che quella era una sensazione con cui doveva imparare ad avere consuetudine, questa crisi perenne che, dopotutto, le avrebbe rivelato chi era. L’occasione che i suoi compagni, avevo aggiunto, indicando due ragazzi che nella confusione della preadolescenza non sapevano che altro fare se non fingere di fare la lotta, non avrebbero avuto che da adulti. Con tutto quello che ne consegue (avrà capito cosa intendevo? Spero di sì).
Non serve Barthes per dire che tutte le storie d’amore sono la stessa storia d’amore. Che se anche se le nostre ci sembrano eroiche e le altre in confronto impallidiscono sempre sono comunque tutte uguali e persino noiose nella loro ripetitività (come direbbe Olivia: And all my friends are tired of hearing how much I miss you, but I kinda feel sorry for them 'Cause they'll never know you the way that I do, yeah, che per una volta è esattamente quello che faccio anche io… finalmente, Olivia, ci troviamo su qualcosa!).
Sour è una versione sanificata delle relazioni in cui mi trovo: una versione zuccherosa e stucchevole, non per questo meno ‘vera’ in un certo senso, ma quasi condensata e purificata da tutte le dinamiche sociali, culturali e di mediocrità (realtà?) che le relazioni adulte si portano con sé. C’è l’intensità della prima grande storia, di quando la confusione della novità, di come queste relazioni vivono nel vuoto, assolute nella loro assenza di confronti. In un certo senso è impossibile non ascoltare Olivia Rodrigo senza sentirsi un po’ innamorati, in un senso puro, slegato da qualsiasi elemento del reale.
Qualche settimana fa sono uscita a cena con degli amici che lavorano nell'ambito digital, come si dice, e culturale. G. chiedeva a F. se avesse visto l’annuncio della prossima stagione di Skam Italia e ne abbiamo parlato un po’ – nessuno ha messo in dubbio il fatto che lo avessimo visto tutti. Il protagonista sarebbe stato Elia? O Federicona? Speriamo non siano un remake di 3msc!
Perché potevamo dare per scontato che tutti sapessimo tutto di questa serie che parla di un gruppo di liceali romani la cui caratteristica principale è essere come tutti? Perché ci possiamo considerare il (o un) demografico di riferimento? Il massimo pregio riconosciuto a Skam è aver portato sullo schermo i ragazzi esattamente per come sono – niente lussi alla Gossip Girl, niente tragedie alla Baby, niente droghe e makeup come Euphoria, ma ragazzi che hanno due giubbotti in croce e si emozionano cantando in coro in macchina. Se la capacità di mimesi della serie è incredibile, allora perché voglio rivivere quella noia? Non volevo avere sedici anni a sedici anni, adesso cosa è cambiato? Ho chiesto cosa ne pensassero e G. ha risposto che la mia impressione che queste serie piacessero solo ai 30enni è forse solo mia – del resto non ho nessun dato per confermarla; e che “i 16enni sono i nuovi 30enni”, senza darmi ulteriori spiegazioni su cosa intendesse veramente. Forse che l’ansia del futuro inizia presto? Forse che la spinta a fare la-cosa-giusta, questa vaga moralizzazione senza oggetto e senza trascendenza impregna la nostra cultura provocando un senso del dovere e un senso di colpa che priva la giovinezza di elementi distruttivi (riparare il mondo!) e rende giovani vecchi con tante responsabilità e nessuna capacità di pensare fuori dal sistema?
Due settimane più tardi, mi sono guardata anche Conversations with friends: dico ‘mi sono guardata’ perché nella sua versione televisiva è di una piattezza insostenibile, tanto che mi sono chiesta cosa abbia fatto Rooney al regista per farsi odiare tanto da girare una serie che conferma ogni critica mai mossa nei suoi confronti. Nella serie Frances, una ventunenne che scrive poesia, ama Nick, attore non realizzatissimo e marito di Melissa, poetessa che si invaghisce della coppia artistica formata da Frances e Bobby, che un tempo stavano insieme; Nick scopre di amare Frances, ma anche sua moglie!, e Frances che amerà per sempre anche Bobby, che a sua volta ama tutti e nessuno, ma forse, almeno lei, ama sé stessa. FINE. Nella versione televisiva Conversations with friends è sanificata da qualsiasi elemento sociale o persino realistico (tranne che pure Frances ha tipo due cappotti in croce, Auerbach ringrazierà), per diventare una storia di AMORE e DESIDERIO, in cui tutti si guardano, tutti si aspettano, tutti litigano – i sentimenti sono espressi in questa maniera purissima e incontaminata dal mondo che viene solo voglia di dire: basta, non ne possiamo più, fatevi una passeggiata.
Spogliata dell'elemento di classe, eludendo ogni vera conversazione sul denaro, Conversations with friends è nient’altro che una serie in cui una ventunenne con i capelli gonfi e umidi si mette con un uomo che ha bisogno di essere supportato; mentre nel libro è chiaro che Frances vuole fottere la vita a Melissa, appartamento, carriera e marito inclusi; che tra Frances e Nick c’è uno scambio – la sicurezza, una figura che si prenda cura di lei da una parte e, dall’altra, la stima, una conferma del proprio valore come uomo, attore, figura di riferimento. Entrambi vogliono essere visti, perché è il sistema e le posizioni che vi occupano all’interno che spinge entrambi a avere bisogno di essere riflessi nell’altro per potersi vedere – e questo si esprime nella scrittura e nel sistema valoriale di una scrittrice intimamente emblema di questo momento storico e culturale, con tutto il corredo di autocoscienza, impotenza e passività che ne deriva. Ma no, tutto questo viene rimandato al mondo dei sentimenti-sentimenti-sentimenti, tanto indecifrabili quanto noiosi e superflui. Come direbbe Olivia Rodrigo: And you're probably with that blonde girl / Who always made me doubt / She's so much older than me / She's everything I'm insecure about, ma non capiamo perché sia insicura o perché sviluppi quel tipo di ossessione amorosa.
Beverly Hills, Dawson’s Creek, The O.C., Gossip Girl, Euphoria, Baby, Elite, Sex Education, Skam – ognuna di queste serie prende le dinamiche relazionali e le traspone in un mondo in cui le uniche responsabilità sono i compiti, il grado di popolarità a scuola o di permissività dei propri genitori, il rapporto con loro, la gelosia e le amicizie: riducendo drasticamente lo spazio di azione e il numero di fattori coinvolti in ciascuno degli scambi, permettono di vivere, cioè di fare esperienza e poi di superare, le grandi questioni, i grandi interrogativi e dolori dello sviluppo. Ma cosa succede quando i dolori dello sviluppo dovrebbero essere già belli che passati? È nostalgia per tutto, per l’assolutezza e la mediocrità dei sentimenti adolescenziali (c'è chi resterebbe in quell'età per sempre, del resto) e il desiderio di riviverli una seconda volta adesso che sono finalmente archiviati? O perché non sono affatto passati?
Perché la complessità del mondo adulto (chiamiamolo così) è troppo ed è preferibile regredire? L’impressione è che questo processo di sanificazione, dei sentimenti-per-i-sentimenti, vada ben oltre i prodotti pensati per i teenager – che infatti sono chiaramente non pensati solo per i teenager! – e produca una serie di opere ad alto tasso zuccherino, con conflitti e risoluzioni nette e perfettamente decifrabili che non chiedono nessun lavoro di comprensione o indagine da parte dello spettatore (C’mon C’mon ce l’ho sempre con te), come se qualsiasi richiesta ulteriore sia eccessiva – non ce la fanno a capire, ad accettare l’ambivalenza. L’infantilizzazione dello spettacolo che produce catarsi immediate, la simbologia chiara e semplificata fa sì che la differenza essenziale tra Skam e un film per adulti, tra un film Marvel sulla backstory di qualche cattivo e una serie ‘di qualità’ pensosa sullo stato della coppia, sia minima se non inesistente – che ci sia sempre un messaggio traducibile, una lezione, un passaggio emotivo che possiamo compiere in diretta di fronte a queste opere.